Il presente contributo è finalizzato ad approfondire la disposizione contenuta nell’articolo 79, comma 2, del Codice del Terzo Settore, che stabilisce il criterio in base al quale gli Enti del Terzo Settore (di seguito anche ETS), diversi dalle imprese sociali, possono svolgere “attività di interesse generale”(1) da considerarsi “non commerciali” ai fini delle imposte sui redditi. Il disposto sopra richiamato, nella parte che qui ci interessa, in particolare, dispone che: “[...] Le attività di interesse generale di cui all’articolo 5 [...] si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, tenuto anche conto degli apporti economici degli enti di cui sopra [...]”. Il successivo comma 2-bis (2), seppure con precisi limiti quantitativi e temporali, estende ulteriormente il perimetro entro cui un’attività di interesse generale possa considerarsi “non commerciale”, prevedendo che: “Le attività di cui al comma 2 si considerano non commerciali qualora i ricavi non superino di oltre il 5 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi”. La ratio della norma consiste dunque nel definire il principio sulla base del quale le attività “statutario-istituzionali” degli ETS sono da considerarsi fiscalmente come “non commerciali”. Tale condizione ricorre in tre casi: qualora siano svolte a titolo gratuito, oppure comportino il pagamento a favore dell’Ente, da parte dei beneficiari/fruitori di tali attività, di “corrispettivi” che non superino i “costi effettivi”, oppure generino un margine non superiore al 5% dei correlativi costi e per non più di due anni consecutivi. Ne deriva che il criterio che il legislatore ha adottato per determinare la “commercialità” o meno di una certa attività di interesse generale svolta dall’Ente è legato all’esito economico scaturente dallo svolgimento dell’atti- vità stessa, che a regime non potrà in ogni caso generare una “marginalità sostanziale e strutturale” per l’ETS. Al riguardo, occorre tuttavia osservare che se per una delle due grandezze economiche in gioco — il “corrispettivo” — la relativa quantificazione avviene in modo “certo ed oggettivo”, stante il flusso finanziario-monetario ad esso connesso (la norma non a caso usa correttamente l’espressione “versamento” per i corrispettivi in questione), molto più indeterminata e potenzialmente controversa risulta la nozione da assumere — e la quantificazione conseguente — per i “costi effettivi”. Lo svolgimento di attività qualificabili come “di interesse generale” richiede infatti l’impiego da parte dell’Ente di una pluralità di fattori produttivi variamente combinati in processi di gestione interna, senza dunque che vi sia la possibilità di individuare univocamente né la configurazione di costo da assumere, né la misura dei costi sostenuti a fronte dello svolgimento delle attività stesse. Tutto ciò premesso, l’obiettivo che ci siamo prefissi con questo breve contributo è esaminare le problematiche connesse con l’interpretazione della nozione di “costi effettivi” e di formulare proposte circa gli elementi di costo da considerare nella loro quantificazione e le possibili modalità di loro determinazione. In particolare, i temi che il quadro normativo di riferimento non affronta (o affronta solo ad un livello introduttivo e preliminare) e che invece ci sembrano particolarmente delicati e complessi hanno per oggetto: — l’inclusione o meno dei componenti figurativi nella determinazione dei costi effettivi e le modalità relative alla loro valorizzazione (paragrafo 3.1); — le tipologie di costo che possono essere ricomprese all’interno del “perimetro” sotteso dalla definizione di “costi effettivi” (paragrafo 3.2); — le metodologie tecniche da utilizzare per la ripartizione dei costi che risultano essere “comuni” a più attività (paragrafo 3.3). Per introdurre le considerazioni che verranno di seguito esposte ed approfondite, riteniamo necessario, nel paragrafo successivo, riprendere in chiave economico-aziendale alcuni aspetti terminologici e metodologici in merito alla nozione di “costo” e, segnatamente, di “costo effettivo”.

tieghi m, del sordo c, baccolini l (2022). LA NOZIONE DI "COSTI EFFETTIVI" PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE: PROBLEMI INTERPRETATIVI ED OPERATIVI. RIVISTA DEI DOTTORI COMMERCIALISTI, 2, 331-347.

LA NOZIONE DI "COSTI EFFETTIVI" PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE: PROBLEMI INTERPRETATIVI ED OPERATIVI

tieghi m;del sordo c
;
2022

Abstract

Il presente contributo è finalizzato ad approfondire la disposizione contenuta nell’articolo 79, comma 2, del Codice del Terzo Settore, che stabilisce il criterio in base al quale gli Enti del Terzo Settore (di seguito anche ETS), diversi dalle imprese sociali, possono svolgere “attività di interesse generale”(1) da considerarsi “non commerciali” ai fini delle imposte sui redditi. Il disposto sopra richiamato, nella parte che qui ci interessa, in particolare, dispone che: “[...] Le attività di interesse generale di cui all’articolo 5 [...] si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, tenuto anche conto degli apporti economici degli enti di cui sopra [...]”. Il successivo comma 2-bis (2), seppure con precisi limiti quantitativi e temporali, estende ulteriormente il perimetro entro cui un’attività di interesse generale possa considerarsi “non commerciale”, prevedendo che: “Le attività di cui al comma 2 si considerano non commerciali qualora i ricavi non superino di oltre il 5 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi”. La ratio della norma consiste dunque nel definire il principio sulla base del quale le attività “statutario-istituzionali” degli ETS sono da considerarsi fiscalmente come “non commerciali”. Tale condizione ricorre in tre casi: qualora siano svolte a titolo gratuito, oppure comportino il pagamento a favore dell’Ente, da parte dei beneficiari/fruitori di tali attività, di “corrispettivi” che non superino i “costi effettivi”, oppure generino un margine non superiore al 5% dei correlativi costi e per non più di due anni consecutivi. Ne deriva che il criterio che il legislatore ha adottato per determinare la “commercialità” o meno di una certa attività di interesse generale svolta dall’Ente è legato all’esito economico scaturente dallo svolgimento dell’atti- vità stessa, che a regime non potrà in ogni caso generare una “marginalità sostanziale e strutturale” per l’ETS. Al riguardo, occorre tuttavia osservare che se per una delle due grandezze economiche in gioco — il “corrispettivo” — la relativa quantificazione avviene in modo “certo ed oggettivo”, stante il flusso finanziario-monetario ad esso connesso (la norma non a caso usa correttamente l’espressione “versamento” per i corrispettivi in questione), molto più indeterminata e potenzialmente controversa risulta la nozione da assumere — e la quantificazione conseguente — per i “costi effettivi”. Lo svolgimento di attività qualificabili come “di interesse generale” richiede infatti l’impiego da parte dell’Ente di una pluralità di fattori produttivi variamente combinati in processi di gestione interna, senza dunque che vi sia la possibilità di individuare univocamente né la configurazione di costo da assumere, né la misura dei costi sostenuti a fronte dello svolgimento delle attività stesse. Tutto ciò premesso, l’obiettivo che ci siamo prefissi con questo breve contributo è esaminare le problematiche connesse con l’interpretazione della nozione di “costi effettivi” e di formulare proposte circa gli elementi di costo da considerare nella loro quantificazione e le possibili modalità di loro determinazione. In particolare, i temi che il quadro normativo di riferimento non affronta (o affronta solo ad un livello introduttivo e preliminare) e che invece ci sembrano particolarmente delicati e complessi hanno per oggetto: — l’inclusione o meno dei componenti figurativi nella determinazione dei costi effettivi e le modalità relative alla loro valorizzazione (paragrafo 3.1); — le tipologie di costo che possono essere ricomprese all’interno del “perimetro” sotteso dalla definizione di “costi effettivi” (paragrafo 3.2); — le metodologie tecniche da utilizzare per la ripartizione dei costi che risultano essere “comuni” a più attività (paragrafo 3.3). Per introdurre le considerazioni che verranno di seguito esposte ed approfondite, riteniamo necessario, nel paragrafo successivo, riprendere in chiave economico-aziendale alcuni aspetti terminologici e metodologici in merito alla nozione di “costo” e, segnatamente, di “costo effettivo”.
2022
tieghi m, del sordo c, baccolini l (2022). LA NOZIONE DI "COSTI EFFETTIVI" PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE: PROBLEMI INTERPRETATIVI ED OPERATIVI. RIVISTA DEI DOTTORI COMMERCIALISTI, 2, 331-347.
tieghi m; del sordo c; baccolini l
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