L’osservazione etnografica - il cui canone è stato stabilito all’inizio del secolo dal lavoro sul campo di antropologi come Bronislaw Malinoski - è interessata ad eventi (comportamenti, azioni, pratiche di lavoro, interazioni discorsive situate, uso dello spazio e degli artefatti) cosiddetti “naturali”, dove l’aggettivo naturale indica semplicemente il fatto che gli eventi osservati non sono prodotti ad hoc dal ricercatore (come avviene nella ricerca sperimentale) né intenzionalmente variati come nella ricerca quasi-sperimentale e neanche sollecitati dal ricercatore come avviene con i metodi dichiarativi : essi fanno parte del “mondo-della-vita” dei partecipanti. Non abbiamo spazio qui per riflettere sul cosiddetto “paradosso dell’osservatore”, sulla connessa questione della riflessività della ricerca dunque sui limiti entro i quali la nozione di “naturalità” va intesa (cfr. Caronia, 2018b). In estrema sintesi, diciamo che la ricerca etnografica assume che, malgrado l’inevitabile reattività alla presenza del ricercatore, gli eventi e i comportamenti osservati siano parte del repertorio culturale dei partecipanti (Duranti, 2000; Caronia 2015). L’osservazione etnografica parte dal presupposto che la conoscenza e la comprensione di tale repertorio siano il prodotto di un duplice processo gnoseologico: “ rendere familiare ciò che ci è estraneo e rendere estraneo ciò che ci è familiare” fornendo una solida base empirica alle interpretazioni avanzate dal ricercatore rispetto a ciò che osserva sul campo. Questa duplice “tecnica della mente” è al lavoro – e deve esserlo – anche quando il ricercatore è impegnato in una ricerca in contesti noti e linguisticamente omogenei (Caronia, 2018b).
L. Caronia (2019). L'osservazione etnografica nella ricerca educativa. SCHOLÉ, LVII(2), 246-250.
L'osservazione etnografica nella ricerca educativa
L. Caronia
2019
Abstract
L’osservazione etnografica - il cui canone è stato stabilito all’inizio del secolo dal lavoro sul campo di antropologi come Bronislaw Malinoski - è interessata ad eventi (comportamenti, azioni, pratiche di lavoro, interazioni discorsive situate, uso dello spazio e degli artefatti) cosiddetti “naturali”, dove l’aggettivo naturale indica semplicemente il fatto che gli eventi osservati non sono prodotti ad hoc dal ricercatore (come avviene nella ricerca sperimentale) né intenzionalmente variati come nella ricerca quasi-sperimentale e neanche sollecitati dal ricercatore come avviene con i metodi dichiarativi : essi fanno parte del “mondo-della-vita” dei partecipanti. Non abbiamo spazio qui per riflettere sul cosiddetto “paradosso dell’osservatore”, sulla connessa questione della riflessività della ricerca dunque sui limiti entro i quali la nozione di “naturalità” va intesa (cfr. Caronia, 2018b). In estrema sintesi, diciamo che la ricerca etnografica assume che, malgrado l’inevitabile reattività alla presenza del ricercatore, gli eventi e i comportamenti osservati siano parte del repertorio culturale dei partecipanti (Duranti, 2000; Caronia 2015). L’osservazione etnografica parte dal presupposto che la conoscenza e la comprensione di tale repertorio siano il prodotto di un duplice processo gnoseologico: “ rendere familiare ciò che ci è estraneo e rendere estraneo ciò che ci è familiare” fornendo una solida base empirica alle interpretazioni avanzate dal ricercatore rispetto a ciò che osserva sul campo. Questa duplice “tecnica della mente” è al lavoro – e deve esserlo – anche quando il ricercatore è impegnato in una ricerca in contesti noti e linguisticamente omogenei (Caronia, 2018b).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.