Anche se può apparire contro-intuitivo è possibile perdersi in se stessi. Ma cosa significa esattamente perdere il proprio sé? L’esperienza di tale smarrimento è in realtà più comune di quanto possa sembrare ed è riferibile alla situazione di trovarsi talmente in balìa dei propri stati d’animo da rendere il mondo e la sua conoscenza il loro semplice riflesso. Un modo per uscire da questa paralisi sia porre una distanza tra il soggetto e la facoltà dell’anima: la coscienza e le sue attività cognitive devono essere reificate. Se infatti le facoltà dell’anima sono portate all’esterno, e l’azione del conoscere è essa stessa personificata in un individuo esistente, vedendoselo di fronte il soggetto riattiva la sua naturale relazione con una realtà che non può più coincidere con la sua azione conoscitiva, perché la coscienza non è più una proprietà intrinseca al soggetto ma l’insieme dei modi di conoscere; e il soggetto non ne è la sostanza, ma costituisce l’articolazione e il meccanismo che permette loro di funzionare. Un esempio storico e filosofico di questa strategia di uscita dalla perdita di sé, lo troviamo nella Consolatio Philosophiae di Severino Boezio. Boezio, trovatosi a giacere in preda a un morbo che paralizza ogni attività conoscitiva (perché la conoscenza del mondo è soggetta al suo stato d’animo), riesce a risalire a un principio unico e fondante – evitando che le conoscenze si disperdano ovunque – attraverso la personificazione delle attività della coscienza, presentate allegoricamente. Riattivare un soggetto che si sia perso e scordato di sé significa infatti allestire pubblicamente, e nel tempo, lo spettacolo dei modi attraverso i quali, sotto un particolare punto di vista, si vede, si conosce e si giudica il mondo. In tal modo, si permette a quella capacità pensante che sostiene il nostro agire mentale e che non sa più di essere un individuo concreto, di riconoscersi e affermarsi come fondamento unitario delle operazioni della mente.

La coscienza della libertà. Una lettura del De Consolatione di Severino Boezio

FEDRIGA, RICCARDO
2008

Abstract

Anche se può apparire contro-intuitivo è possibile perdersi in se stessi. Ma cosa significa esattamente perdere il proprio sé? L’esperienza di tale smarrimento è in realtà più comune di quanto possa sembrare ed è riferibile alla situazione di trovarsi talmente in balìa dei propri stati d’animo da rendere il mondo e la sua conoscenza il loro semplice riflesso. Un modo per uscire da questa paralisi sia porre una distanza tra il soggetto e la facoltà dell’anima: la coscienza e le sue attività cognitive devono essere reificate. Se infatti le facoltà dell’anima sono portate all’esterno, e l’azione del conoscere è essa stessa personificata in un individuo esistente, vedendoselo di fronte il soggetto riattiva la sua naturale relazione con una realtà che non può più coincidere con la sua azione conoscitiva, perché la coscienza non è più una proprietà intrinseca al soggetto ma l’insieme dei modi di conoscere; e il soggetto non ne è la sostanza, ma costituisce l’articolazione e il meccanismo che permette loro di funzionare. Un esempio storico e filosofico di questa strategia di uscita dalla perdita di sé, lo troviamo nella Consolatio Philosophiae di Severino Boezio. Boezio, trovatosi a giacere in preda a un morbo che paralizza ogni attività conoscitiva (perché la conoscenza del mondo è soggetta al suo stato d’animo), riesce a risalire a un principio unico e fondante – evitando che le conoscenze si disperdano ovunque – attraverso la personificazione delle attività della coscienza, presentate allegoricamente. Riattivare un soggetto che si sia perso e scordato di sé significa infatti allestire pubblicamente, e nel tempo, lo spettacolo dei modi attraverso i quali, sotto un particolare punto di vista, si vede, si conosce e si giudica il mondo. In tal modo, si permette a quella capacità pensante che sostiene il nostro agire mentale e che non sa più di essere un individuo concreto, di riconoscersi e affermarsi come fondamento unitario delle operazioni della mente.
2008
R. Fedriga
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