Nella nota di commento a Trib. Treviso 6 novembre 2006 si evidenziano gli effetti in certa misura paradossali del ragionamento svolto dal tribunale: nell’interpretazione del giudice, infatti, il convivente more uxorio, tradizionalmente coinvolto dalla presunzione di gratuità della prestazione resa nell’ambito dell’impresa familiare “di fatto” per analogia con la medesima presunzione vigente nell’ambito della famiglia legittima, sarebbe escluso dal ridimensionamento di detta presunzione, in virtù della eccezionalità dell’art. 230 bis. Tale presunzione, per seguire il filo del ragionamento condotto dal Tribunale, sarebbe in grado di interagire e retroagire sulla dimensione della subordinazione, rendendo la prova di quel vincolo “più rigorosa” di quanto non lo sia nel caso del familiare, dell’affine o del congiunto. Per altro verso, benché sia discutibile l’esito del ragionamento, non è affatto peregrina la scelta di mobilitare l’art. 230 bis, né può dirsi che l’argomentazione che lo coinvolge sia svolta ad abundantiam: viene ammessa, infatti, all’esito dell’esame delle circostanze di fatto come ricostruite attraverso le testimonianze, “la non univocità delle relative emergenze istruttorie, da valutarsi prudentemente a causa del particolare vincolo affettivo esistente tra le parti, nonché anche della qualifica di socia della ricorrente”. In definitiva, se si assume la indubbia relatività del secondo elemento appena considerato – a motivo della già rilevata acquisizione delle qualifica di socia soltanto in epoca successiva all’inizio dell’attività lavorativa – appare determinante, nella valutazione del Giudice, la sussistenza di un vincolo affettivo sufficientemente forte da far presumere la gratuità delle prestazioni rese e, al tempo stesso, non sufficientemente istituzionalizzato da portare ad escluderla. La subordinazione del convivente more uxorio si mostra, in conclusione, più ardua da provare di quella di qualunque altro soggetto, tanto da sollecitare il dubbio che, in presenza dei medesimi risultati probatori, non solo un soggetto qualunque, ma anche un moglie, un marito, un fratello…, sarebbero stati riconosciuti titolari di un rapporto di lavoro subordinato, con relativo integrale accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivo
F. Martelloni (2007). La (più) rigorosa prova della subordinazione nella convivenza more uxorio. DIRITTI, 6, 93-101.
La (più) rigorosa prova della subordinazione nella convivenza more uxorio
MARTELLONI, FEDERICO
2007
Abstract
Nella nota di commento a Trib. Treviso 6 novembre 2006 si evidenziano gli effetti in certa misura paradossali del ragionamento svolto dal tribunale: nell’interpretazione del giudice, infatti, il convivente more uxorio, tradizionalmente coinvolto dalla presunzione di gratuità della prestazione resa nell’ambito dell’impresa familiare “di fatto” per analogia con la medesima presunzione vigente nell’ambito della famiglia legittima, sarebbe escluso dal ridimensionamento di detta presunzione, in virtù della eccezionalità dell’art. 230 bis. Tale presunzione, per seguire il filo del ragionamento condotto dal Tribunale, sarebbe in grado di interagire e retroagire sulla dimensione della subordinazione, rendendo la prova di quel vincolo “più rigorosa” di quanto non lo sia nel caso del familiare, dell’affine o del congiunto. Per altro verso, benché sia discutibile l’esito del ragionamento, non è affatto peregrina la scelta di mobilitare l’art. 230 bis, né può dirsi che l’argomentazione che lo coinvolge sia svolta ad abundantiam: viene ammessa, infatti, all’esito dell’esame delle circostanze di fatto come ricostruite attraverso le testimonianze, “la non univocità delle relative emergenze istruttorie, da valutarsi prudentemente a causa del particolare vincolo affettivo esistente tra le parti, nonché anche della qualifica di socia della ricorrente”. In definitiva, se si assume la indubbia relatività del secondo elemento appena considerato – a motivo della già rilevata acquisizione delle qualifica di socia soltanto in epoca successiva all’inizio dell’attività lavorativa – appare determinante, nella valutazione del Giudice, la sussistenza di un vincolo affettivo sufficientemente forte da far presumere la gratuità delle prestazioni rese e, al tempo stesso, non sufficientemente istituzionalizzato da portare ad escluderla. La subordinazione del convivente more uxorio si mostra, in conclusione, più ardua da provare di quella di qualunque altro soggetto, tanto da sollecitare il dubbio che, in presenza dei medesimi risultati probatori, non solo un soggetto qualunque, ma anche un moglie, un marito, un fratello…, sarebbero stati riconosciuti titolari di un rapporto di lavoro subordinato, con relativo integrale accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivoI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.