Franchise fatigue, superhero fatigue, tentpole fatigue sono oggi termini ricorrenti che indicano, con alcune sfumature, lo stesso fenomeno: la palese stanchezza del pubblico verso i grandi franchise, quelli in cui è tutto connesso, quelli che espandono costantemente l’universo narrativo su più media e nel corso di decenni. In molti parlano del problema della ripetitività delle storie, sempre uguali a loro stesse. Ma non c’è bisogno (o forse sì) di scomodare Umberto Eco per notare che la serialità si basa proprio su questo: all’inizio di ogni episodio di Colombo, noi sappiamo già chi è l’assassino e il bello sta nel seguire il protagonista che risolve il caso sempre attraverso le stesse, ricorrenti procedure. D’altra parte, se formule e formati non funzionassero, oggi avremmo una industria dell’intrattenimento decisamente diversa e storie come quelle dei supereroi avrebbero smesso di generare profitti già dagli anni Cinquanta. Certo la qualità conta tuttavia, a ben vedere, questa fatica non è sentita solo dal pubblico, ma anche dalla produzione. Ha a che fare, infatti, con i meccanismi inceppati di un modello che da rivoluzionario è diventato, neanche troppo lentamente, prima normalizzato e poi addirittura insostenibile. Ha a che fare con alcuni problemi nell’evoluzione di quel modello di franchise che permette alle conglomerate mediale di sfruttare al meglio tutte le proprie risorse, il transmedia storytelling. O ancora meglio, ha a che fare con quello che è andato storto con il transmedia storytelling.
Paola Brembilla (2024). Della franchise fatigue, o di cosa è andato storto con il transmedia storytelling. LINK, 30, 104-111.
Della franchise fatigue, o di cosa è andato storto con il transmedia storytelling
Paola Brembilla
2024
Abstract
Franchise fatigue, superhero fatigue, tentpole fatigue sono oggi termini ricorrenti che indicano, con alcune sfumature, lo stesso fenomeno: la palese stanchezza del pubblico verso i grandi franchise, quelli in cui è tutto connesso, quelli che espandono costantemente l’universo narrativo su più media e nel corso di decenni. In molti parlano del problema della ripetitività delle storie, sempre uguali a loro stesse. Ma non c’è bisogno (o forse sì) di scomodare Umberto Eco per notare che la serialità si basa proprio su questo: all’inizio di ogni episodio di Colombo, noi sappiamo già chi è l’assassino e il bello sta nel seguire il protagonista che risolve il caso sempre attraverso le stesse, ricorrenti procedure. D’altra parte, se formule e formati non funzionassero, oggi avremmo una industria dell’intrattenimento decisamente diversa e storie come quelle dei supereroi avrebbero smesso di generare profitti già dagli anni Cinquanta. Certo la qualità conta tuttavia, a ben vedere, questa fatica non è sentita solo dal pubblico, ma anche dalla produzione. Ha a che fare, infatti, con i meccanismi inceppati di un modello che da rivoluzionario è diventato, neanche troppo lentamente, prima normalizzato e poi addirittura insostenibile. Ha a che fare con alcuni problemi nell’evoluzione di quel modello di franchise che permette alle conglomerate mediale di sfruttare al meglio tutte le proprie risorse, il transmedia storytelling. O ancora meglio, ha a che fare con quello che è andato storto con il transmedia storytelling.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.