In Italia vi sono oltre 18000 siti contaminati, che occupano il 3% del territorio nazionale. Di questi, più di 5000 sono di interesse regionale e più di 50 di interesse nazionale. La bonifica di tali siti in Italia viene condotta per lo più attraverso tecniche ex situ di tipo convenzionale: per i suoli, prevale lo scavo e smaltimento in discarica (Dig & Dump), tecnica che considera il suolo come un rifiuto piuttosto che come una risorsa da risanare e riutilizzare; per le falde, domina ampiamente il Pump & Treat, spesso associato all'adsorbimento dei contaminanti su carboni attivi a perdere che vengono smaltiti in discariche. L’uso di tecnologie in situ rimane minoritario, anche per tecniche largamente utilizzate in altri paesi. La scarsa applicazione delle tecniche di bonifica in situ, comprese quelle biologiche, è dovuta a vari fattori tra cui prevale quello legato alla normativa. A questo riguardo è da evidenziare la scelta, di impronta conservativa, effettuata dal legislatore con il D.Lgs. 4/08 il quale impone per la falda ai confini di proprietà il rispetto delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC) di cui al D.Lgs. 152/06. Altri fattori che possono spiegare lo scarso utilizzo di tecnologie biologiche in Italia sono: • l'elevata presenza, tra le aziende impegnate nella bonifica dei siti contaminati, di PMI, tra le quali è più difficile che siano disponibili le competenze per gestire l'applicazione delle tecnologie più complesse, vista anche la scarsa interazione tra aziende ed università o centri di ricerca; • la diffidenza sull'efficacia e sulle tempistiche (specialmente in presenza di NAPL, di contaminazioni storiche e di obiettivi di bonifica molto stringenti); • la preoccupazione per gli eventuali metaboliti. Per favorire l'estensione dell'applicazione dei metodi biologici di monitoraggio e bonifica dei siti contaminati, sarebbe importante che gli Enti e/o il Legislatore stabilissero obiettivi di bonifica più aderenti alle situazioni specifiche locali e quindi più realistici da raggiungere, eventualmente anche utilizzando le possibilità previste dal D.Lgs. 4/08 per l'uso di valori diversi dalle CSC al confine di proprietà. Inoltre, da parte delle università e centri di ricerca, si ritiene utile: o una maggiore partecipazione ad attività di sperimentazione in campo con razionalizzazione dei risultati ottenuti e loro divulgazione; o l’approfondimento delle conoscenze sull'uso di prodotti a lento rilascio di agenti riducenti e ossidanti (attualmente utilizzati con know-how di pochi produttori) e sull'uso di tensioattivi biocompatibili; o l’approfondimento delle conoscenze su batteri e funghi in grado di biodegradare inquinanti organici, con particolare attenzione ai composti recalcitranti (quali organoclorurati e distruttori endocrini) ed al comportamento dei microrganismi in presenza di fasi non acquose separate (L-NAPL e D-NAPL); o lo sviluppo di strumenti biotecnologico-molecolari in grado di integrare le conoscenze acquisibili in fase di caratterizzazione e di monitoraggio, ed eventualmente di consentire una più mirata progettazione dei trattamenti di bonifica.

D. Frascari, G. Zanaroli, M. Nocentini, F. Fava (2010). Bioremediation, i ritardi dell’Italia. ECOSCIENZA, 3/2010, 96-98.

Bioremediation, i ritardi dell’Italia

FRASCARI, DARIO;ZANAROLI, GIULIO;NOCENTINI, MASSIMO;FAVA, FABIO
2010

Abstract

In Italia vi sono oltre 18000 siti contaminati, che occupano il 3% del territorio nazionale. Di questi, più di 5000 sono di interesse regionale e più di 50 di interesse nazionale. La bonifica di tali siti in Italia viene condotta per lo più attraverso tecniche ex situ di tipo convenzionale: per i suoli, prevale lo scavo e smaltimento in discarica (Dig & Dump), tecnica che considera il suolo come un rifiuto piuttosto che come una risorsa da risanare e riutilizzare; per le falde, domina ampiamente il Pump & Treat, spesso associato all'adsorbimento dei contaminanti su carboni attivi a perdere che vengono smaltiti in discariche. L’uso di tecnologie in situ rimane minoritario, anche per tecniche largamente utilizzate in altri paesi. La scarsa applicazione delle tecniche di bonifica in situ, comprese quelle biologiche, è dovuta a vari fattori tra cui prevale quello legato alla normativa. A questo riguardo è da evidenziare la scelta, di impronta conservativa, effettuata dal legislatore con il D.Lgs. 4/08 il quale impone per la falda ai confini di proprietà il rispetto delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC) di cui al D.Lgs. 152/06. Altri fattori che possono spiegare lo scarso utilizzo di tecnologie biologiche in Italia sono: • l'elevata presenza, tra le aziende impegnate nella bonifica dei siti contaminati, di PMI, tra le quali è più difficile che siano disponibili le competenze per gestire l'applicazione delle tecnologie più complesse, vista anche la scarsa interazione tra aziende ed università o centri di ricerca; • la diffidenza sull'efficacia e sulle tempistiche (specialmente in presenza di NAPL, di contaminazioni storiche e di obiettivi di bonifica molto stringenti); • la preoccupazione per gli eventuali metaboliti. Per favorire l'estensione dell'applicazione dei metodi biologici di monitoraggio e bonifica dei siti contaminati, sarebbe importante che gli Enti e/o il Legislatore stabilissero obiettivi di bonifica più aderenti alle situazioni specifiche locali e quindi più realistici da raggiungere, eventualmente anche utilizzando le possibilità previste dal D.Lgs. 4/08 per l'uso di valori diversi dalle CSC al confine di proprietà. Inoltre, da parte delle università e centri di ricerca, si ritiene utile: o una maggiore partecipazione ad attività di sperimentazione in campo con razionalizzazione dei risultati ottenuti e loro divulgazione; o l’approfondimento delle conoscenze sull'uso di prodotti a lento rilascio di agenti riducenti e ossidanti (attualmente utilizzati con know-how di pochi produttori) e sull'uso di tensioattivi biocompatibili; o l’approfondimento delle conoscenze su batteri e funghi in grado di biodegradare inquinanti organici, con particolare attenzione ai composti recalcitranti (quali organoclorurati e distruttori endocrini) ed al comportamento dei microrganismi in presenza di fasi non acquose separate (L-NAPL e D-NAPL); o lo sviluppo di strumenti biotecnologico-molecolari in grado di integrare le conoscenze acquisibili in fase di caratterizzazione e di monitoraggio, ed eventualmente di consentire una più mirata progettazione dei trattamenti di bonifica.
2010
D. Frascari, G. Zanaroli, M. Nocentini, F. Fava (2010). Bioremediation, i ritardi dell’Italia. ECOSCIENZA, 3/2010, 96-98.
D. Frascari; G. Zanaroli; M. Nocentini; F. Fava
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