Nel panorama italiano, la Sardegna, più di altre regioni, rappresenta oggi un precipitato, in forma insulare, di una particolare condizione all’interno della cornice più ampia dell’attuale crisi socio-ambientale. Nell’immaginario comune è la meta delle vacanze con il mare cristallino, dimenticando spesso la dissonante militarizzazione dell’isola data dalla presenza di basi NATO che, oltre ad occuparne una superficie vastissima, insieme ad altri fattori, concorrono a inquinarne suolo e acque: la Sardegna è la regione italiana con il maggior numero di ettari contaminati (cfr. Report SNPA 337/2021). La speculazione edilizia, negli anni, ha privatizzato e cementificato irreversibilmente le coste con esiti oscillanti tra il “troppo-pieno” della turistificazione di massa e i vuoti sospesi dell’abbandono (cfr. «Menelique», 8, 2022, pp. 84-89, 96-101), mentre l’entroterra conserva il fascino folkloristico che rinforza la narrazione “tossica” (Armiero, 2021) di una terra arretrata, determinandone la marginalizzazione. La Sardegna, come spesso accade ai Sud del mondo, è stata ed è tutt’ora, in forme variate, territorio di conquista e estrattivismo – soprattutto minerario –, risorsa da mettere a valore, innescando meccanismi secolari e intersezionali di slow violence (Nixon, 2011). Una violenza per certi versi silenziosa e sotterranea che permea la totalità delle componenti di un ecosistema (Alaimo, 2010) e che si manifesta anche sul piano linguistico (Glissant, 1990; Casanova, 2015) dove, accanto all’italiano, resiste l’uso della limba sarda. Partendo da queste premesse, dopo un necessario posizionamento biografico e metodologico come non originaria sarda, studiosa di environmental humanities e, più nello specifico, di ecocritica con incursioni nella teoria geocritica (Westphal, 2009), proporrò una contro-narrazione che metta in luce la relazione elementale e profonda tra umano e non-umano che emerge da una selezione di testi di tre autori sardi: Grazia Deledda, Sergio Atzeni e Antonella Anedda. Se ne Il nostro padrone (1910), con sensibilità ecologista e consapevolezza del relativo valore politico ante-litteram, Deledda denuncia la speculazione boschiva ai danni del monte Ortobene e della comunità nuorese, nella prosa di Atzeni il tempo circolare del mito riconnette l’umano alla ciclicità della natura. «Passavamo sulla terra leggeri come acqua» (Atzeni, 2000), racconta il guardiano del tempo, Antonio Setzu. La sua voce ripercorre la storia millenaria dei S’ard, «danzatori delle stelle», lungo tutto il romanzo che intreccia il “noi” dell’oralità, con cui da sempre si tramanda la storia collettiva degli antichi, e l’“io” del narratore-scrittore alter-ego di Atzeni. Infine, la compenetrazione tra paesaggio e testo (Iovino, 2006; 2022; Iovino, Oppermann, 2014) trova pieno compimento nella raccolta poetica Historiae (2018) di Anedda in cui lingua-madre e terra di origine – seguendo la lezione di Zanzotto – si fondono, trovando nella parola una possibilità di relazione con l’alterità temporale, geografica e non-umana: i confini tra vita e morte sfumano fino alla dispersione del pronome “io”. Con le parole della poeta, «[…] l’isola non è isolata, ma esposta» (Anedda, 2021) e il linguaggio della letteratura ha saputo, nel tempo, condensare e rappresentare le forme di resistenza sviluppate praticando un ascolto e una conoscenza radicali dei luoghi che, in modi diversi, hanno attraversato l’esperienza di questi scrittori.
Francesca Nardi (2023). Un’isola esposta: lettura ecocritica per una contro-narrazione della Sardegna (Deledda, Atzeni, Anedda).
Un’isola esposta: lettura ecocritica per una contro-narrazione della Sardegna (Deledda, Atzeni, Anedda)
Francesca Nardi
2023
Abstract
Nel panorama italiano, la Sardegna, più di altre regioni, rappresenta oggi un precipitato, in forma insulare, di una particolare condizione all’interno della cornice più ampia dell’attuale crisi socio-ambientale. Nell’immaginario comune è la meta delle vacanze con il mare cristallino, dimenticando spesso la dissonante militarizzazione dell’isola data dalla presenza di basi NATO che, oltre ad occuparne una superficie vastissima, insieme ad altri fattori, concorrono a inquinarne suolo e acque: la Sardegna è la regione italiana con il maggior numero di ettari contaminati (cfr. Report SNPA 337/2021). La speculazione edilizia, negli anni, ha privatizzato e cementificato irreversibilmente le coste con esiti oscillanti tra il “troppo-pieno” della turistificazione di massa e i vuoti sospesi dell’abbandono (cfr. «Menelique», 8, 2022, pp. 84-89, 96-101), mentre l’entroterra conserva il fascino folkloristico che rinforza la narrazione “tossica” (Armiero, 2021) di una terra arretrata, determinandone la marginalizzazione. La Sardegna, come spesso accade ai Sud del mondo, è stata ed è tutt’ora, in forme variate, territorio di conquista e estrattivismo – soprattutto minerario –, risorsa da mettere a valore, innescando meccanismi secolari e intersezionali di slow violence (Nixon, 2011). Una violenza per certi versi silenziosa e sotterranea che permea la totalità delle componenti di un ecosistema (Alaimo, 2010) e che si manifesta anche sul piano linguistico (Glissant, 1990; Casanova, 2015) dove, accanto all’italiano, resiste l’uso della limba sarda. Partendo da queste premesse, dopo un necessario posizionamento biografico e metodologico come non originaria sarda, studiosa di environmental humanities e, più nello specifico, di ecocritica con incursioni nella teoria geocritica (Westphal, 2009), proporrò una contro-narrazione che metta in luce la relazione elementale e profonda tra umano e non-umano che emerge da una selezione di testi di tre autori sardi: Grazia Deledda, Sergio Atzeni e Antonella Anedda. Se ne Il nostro padrone (1910), con sensibilità ecologista e consapevolezza del relativo valore politico ante-litteram, Deledda denuncia la speculazione boschiva ai danni del monte Ortobene e della comunità nuorese, nella prosa di Atzeni il tempo circolare del mito riconnette l’umano alla ciclicità della natura. «Passavamo sulla terra leggeri come acqua» (Atzeni, 2000), racconta il guardiano del tempo, Antonio Setzu. La sua voce ripercorre la storia millenaria dei S’ard, «danzatori delle stelle», lungo tutto il romanzo che intreccia il “noi” dell’oralità, con cui da sempre si tramanda la storia collettiva degli antichi, e l’“io” del narratore-scrittore alter-ego di Atzeni. Infine, la compenetrazione tra paesaggio e testo (Iovino, 2006; 2022; Iovino, Oppermann, 2014) trova pieno compimento nella raccolta poetica Historiae (2018) di Anedda in cui lingua-madre e terra di origine – seguendo la lezione di Zanzotto – si fondono, trovando nella parola una possibilità di relazione con l’alterità temporale, geografica e non-umana: i confini tra vita e morte sfumano fino alla dispersione del pronome “io”. Con le parole della poeta, «[…] l’isola non è isolata, ma esposta» (Anedda, 2021) e il linguaggio della letteratura ha saputo, nel tempo, condensare e rappresentare le forme di resistenza sviluppate praticando un ascolto e una conoscenza radicali dei luoghi che, in modi diversi, hanno attraversato l’esperienza di questi scrittori.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.