«Roma quanta fuit, ipsa ruina docet»: questa celebre frase, inserita da Sebastiano Serlio (1475-1554) tra le rovine di un antico portico bugnato sul frontespizio del terzo volume del suo trattato sull’architettura (1540), testimonia la seduzione esercitata su artisti e umanisti da Roma antica attraverso i suoi monumenti. Per gli architetti del Quattro e del primo Cinquecento, desiderosi quanto i loro committenti di far “rinascere” e di superare la grandezza dell’arte antica, la conoscenza del linguaggio classico era frammentaria e talvolta incerta. Il sistematico confronto tra i testi latini (soprattutto il De Architectura di Vitruvio), le interpretazioni degli umanisti e il rilievo delle rovine romane, accertò progressivamente le declinazioni del lessico e le modalità costruttive “all’antica”. Questo sforzo di ricognizione e di recupero tecnico, tipologico e lessicale, finalizzato a ricomporre un’architettura ‘modernamente antica’, secondo la definizione di Giorgio Vasari, si inceppa quando si misura con l’architettura religiosa, per la quale non esistevano prototipi a cui ispirarsi: l’età classica forniva solo esempi di templi pagani, spazialmente e simbolicamente inadatti alle liturgie cristiane. Uno dei problemi progettuali più spinosi era ad esempio quello delle facciate delle nuove chiese, che stentavano a trovare una formulazione capace di coniugare il lessico classico con gli spazi e i simboli della liturgia cristiana. Il saggio ripercorre in una sintesi critica i principali protagonisti di questa ricerca e i progetti esemplari di architetture religiose in Italia tra Quattro e Cinquecento. Accompagnano il testo sei schede analitiche dedicate ad altrettante opere (Chiesa di San Sebastiano a Mantova, Chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio a Cortona, Chiostro di Santa Maria della Pace a Roma, Chiesa di San Bernardino all’Aquila, Basilica di Santa Maria Assunta a Carignano a Genova, Chiesa del Redentore a Venezia).
L’Antico come profezia
Micaela Antonucci
2022
Abstract
«Roma quanta fuit, ipsa ruina docet»: questa celebre frase, inserita da Sebastiano Serlio (1475-1554) tra le rovine di un antico portico bugnato sul frontespizio del terzo volume del suo trattato sull’architettura (1540), testimonia la seduzione esercitata su artisti e umanisti da Roma antica attraverso i suoi monumenti. Per gli architetti del Quattro e del primo Cinquecento, desiderosi quanto i loro committenti di far “rinascere” e di superare la grandezza dell’arte antica, la conoscenza del linguaggio classico era frammentaria e talvolta incerta. Il sistematico confronto tra i testi latini (soprattutto il De Architectura di Vitruvio), le interpretazioni degli umanisti e il rilievo delle rovine romane, accertò progressivamente le declinazioni del lessico e le modalità costruttive “all’antica”. Questo sforzo di ricognizione e di recupero tecnico, tipologico e lessicale, finalizzato a ricomporre un’architettura ‘modernamente antica’, secondo la definizione di Giorgio Vasari, si inceppa quando si misura con l’architettura religiosa, per la quale non esistevano prototipi a cui ispirarsi: l’età classica forniva solo esempi di templi pagani, spazialmente e simbolicamente inadatti alle liturgie cristiane. Uno dei problemi progettuali più spinosi era ad esempio quello delle facciate delle nuove chiese, che stentavano a trovare una formulazione capace di coniugare il lessico classico con gli spazi e i simboli della liturgia cristiana. Il saggio ripercorre in una sintesi critica i principali protagonisti di questa ricerca e i progetti esemplari di architetture religiose in Italia tra Quattro e Cinquecento. Accompagnano il testo sei schede analitiche dedicate ad altrettante opere (Chiesa di San Sebastiano a Mantova, Chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio a Cortona, Chiostro di Santa Maria della Pace a Roma, Chiesa di San Bernardino all’Aquila, Basilica di Santa Maria Assunta a Carignano a Genova, Chiesa del Redentore a Venezia).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.