In una logica ingenua e un po’ perversa, gli architetti sono convinti che la calamità sanitaria determinerà uno stravolgimento negli usi dello spazio pubblico e quindi dei relativi strumenti di progettazione. Piuttosto, come dimostra bene questo numero di “Domus”, è con evidenza rilevabile come durante le catastrofi, siano esse belliche, terroristiche, sismiche, climatiche o conseguenti al diffondersi di virus, la fase di emergenza costringe ad individuare nuove pratiche, di breve o lunga durata, ma comunque di tipo temporaneo, specifiche a gestire i determinati problemi contingenti. Superato questo frangente transitorio, caratterizzato da occasionali sperimentazioni effimere, lo spazio urbano si riappropria della sua identità e viene rivissuto alla stessa stregua precedente la crisi. Quando lo spazio pubblico, inteso nella sua convenzionale accezione di luogo dell’incontro o "finestra sull'anima della città" come lo ha definito Sharon Zukin, non è predisposto a garantire il distanziamento e lo svolgimento in sicurezza delle ordinarie attività che in esso tradizionalmente si svolgono, si riproduce in altre forme provvisorie. O meglio ancora, lo spazio pubblico aperto si è adeguato per accogliere attività generalmente praticate in ambienti chiusi, esprimendosi in una diversa conformazione progettuale per consentire di praticare in sicurezza attività o spettacoli pubblici: come è accaduto a Venezia con l’appropriazione degli spazi d’acqua o nel riadattamento evidenziato dalla colonizzazione di marciapiedi con il posizionamento predeterminato di arredi. Le recenti installazioni a Castelfranco Emilia, Piazza Giotto a Vicchio, in Italia, o il cinema all'aperto ricavato sulle piste di atterraggio dell'aeroporto di Vilnius, The Gastro Safe Zone a Brno e il Lollypop Lounge a King's Cross a Londra dimostrano quanto le interazioni con il prossimo costringano a immaginare modalità di ripopolamento e di contatto condizionanti l'organizzazione dello spazio aperto. Tali esperienze dimostrano come la carenza di spazio pubblico sia maggiore in periferia, dove questo limite si amplifica proprio per la mancanza di ambiti adeguati rispetto al centro storico, ripercuotendosi conseguentemente e gravemente sui suoi abitanti e quindi tra le classi meno abbienti, che risultano ancora una volta le più penalizzate. Questa pluralità di configurazioni conferma in realtà la proprietà di transizione e di riadattamento a svariate possibili funzioni che per sua natura lo spazio pubblico può accogliere. La piazza è sempre stata nel tempo un luogo metamorfico, capace di ospitare indifferentemente esercitazioni militari, parcheggi d’auto, feste popolari, mercati, eventi ludici e culturali, divenendo addirittura una vasca d’acqua come Piazza Navona, o ancora teatro di manifestazioni politiche, religiose o di protesta. Anche se i codici attuativi teorizzati negli ultimi duecento anni dovranno essere aggiornati, non si tratta di intervenire sugli spazi pubblici storici già esistenti, quanto di immaginare nuove norme per la modellazione della miriade di vuoti urbani dispersi nelle città contemporanee. Se le misure anticontagio attuate per scongiurare il pericolo virale come il confinamento, l’impedimento della circolazione e la quarantena appaiono in prima battuta antitetiche alla abitudinaria frequentazione dello spazio pubblico, in quanto territorio dell’incontro, in realtà queste esperienze restrittive ne hanno fatto riemergere tutte le potenzialità estetiche: ammirare il vuoto derivato dall’inutilizzo e dallo spopolamento permette di cogliere prospettive urbane, in cui contemplare la bellezza delle architetture che lo generano come già Luigi Ghirri aveva indicato con alcune sue magistrali fotografie di piazze delle città emiliane. Le vedute disabitate di Piazza San Marco o di San Pietro, come le mille altre piazze d’Italia dei centri minori mostrate dalle televisioni di tutto il mondo la scorsa primavera restano impresse nella memoria come incisioni contemporanee, svelando la quintessenza dello spazio pubblico. Non sarà necessario quindi nessun pensiero nuovo. Non c’è urgenza di altre rivoluzioni o appelli alla resilienza. Se la crisi pandemica mondiale sta avviando una consistente sostituzione degli oggetti d’uso comune e delle tecnolgie digitali (dai social distancing markers ai dispositivi wearable), affidando al design industriale i reali processi di innovazione, lo spazio pubblico tradizionale delle città non necessiterà di alcun cambiamento d’identità e, superata l’emergenza, si riadatterà al proprio carattere di luogo per l’affollamento, proprio per effetto della sua univoca struttura compositiva. I veri processi di trasformazione dovranno riguardare le aree dismesse, il recupero di ambiti abbandonati, la ridefinizione di zone incolte. In tal senso un esempio virtuoso è il Parco dei Salici in corso di realizzazione a Padova. Nato come progetto partecipativo per riqualificare un vuoto residuale inedificato, coinvolgendo gli abitanti del quartiere periferico della Guizza, il gruppo di lavoro del G124 di Renzo Piano, coordinato dal prof. Edoardo Narne, ha definito una strategia di configurazione dello spazio verde impostata sui criteri del distanziamento fisico, ma non sociale, concepito per dare origine ad un bosco urbano perenne a servizio della città. Una tematica urgente con cui prefigurare l’ambiente metropolitano del futuro è dunque progettare il vuoto delle periferie, aumentando a dismisura lo spazio pubblico attrezzato. Fare nuovi spazi, investendo le risorse pubbliche disponibili non in infrastrutture pesanti (autostrade, tangenziali, o in genere corridoi d’asfalto impattanti sull’ambiente), ma promuovendo il recupero e l’innesto di una costellazione di spazi pubblici nuovi, relazionati tra loro, anche di piccole dimensioni, capaci di accogliere e ospitare tutte le tipologie di comunità sociali, in un processo di organizzazione dei luoghi esistenti e di fabbricazione di maggior spazio usufruibile, agevolando l’insediamento capillare di micro attività commerciali e ristorative al dettaglio, di botteghe d'artigianato e attività culturali. Questo arricchimento del territorio, nel quale interverranno artisti, architetti, botanici, si espanderà ai tetti dei condomini da ripensare come aree della convivialità, alla pedonalizzazione delle strade, all'allargamento di marciapiedi e ciclabili, a vicoli, angoli pittoreschi, giardini, parchi, campus universitari, dove si dovranno far crescere alberi, inserire opere d’arte urbana come dimostrano gli ultimi site specific di Edoardo Tresoldi a Reggio Calabria e a Bologna. Costringere verso questo sviluppo quantitativo e all'incremento di spazio pubblico consentirà di superare le problematiche di coesistenza e fronteggiare l'ondata devastante del cambiamento climatico. Il nuovo millennio si è manifestato con vent’anni di ritardo: sarebbe un errore di metodo auspicare di reinventare gli spazi secolari di piazze, parchi, passeggiate, lungomare, strade. Occorrerà invece accelerare su questo riadattamento di aree di risulta, abbandonate o sottoutilizzate, favorendone la naturalizzazione con ingenti piantumazioni arboree e concentrando qui gli esercizi per le pratiche di un progetto urbano orientato a verificare nuovi e inediti scenari per la costruzione di uno spazio pubblico alternativo. L’iconografia urbana generata dalla pausa sociale epidemica ha mostrato lo spazio pubblico nella sua forma classica, già nota dalle raffigurazioni delle città ideali rinascimentali. Privato di persone e con la sparizione delle automobili, lo spazio pubblico si è svelato in una moltitudine di superfici disponibili da trasformare in campi urbani verdi concepiti per la preservazione della biodiversità. Come ci ricorda Stefano Mancuso, e volgendo lo sguardo indietro ad alcuni progetti di Emilio Ambasz, la città dopo il 2020 dovrà essere conquistata dalla natura che potrà crescervi all’interno. Il vero cambiamento non sarà mutare lo spazio pubblico, ma l’idea di città: ricoprirle interamente di alberi, per risolvere il problema della sopravvivenza della specie e dell'inquinamento globale.

Matteo Agnoletto (2020). Progettare il vuoto. DOMUS, 1052, 12-13.

Progettare il vuoto

Matteo Agnoletto
2020

Abstract

In una logica ingenua e un po’ perversa, gli architetti sono convinti che la calamità sanitaria determinerà uno stravolgimento negli usi dello spazio pubblico e quindi dei relativi strumenti di progettazione. Piuttosto, come dimostra bene questo numero di “Domus”, è con evidenza rilevabile come durante le catastrofi, siano esse belliche, terroristiche, sismiche, climatiche o conseguenti al diffondersi di virus, la fase di emergenza costringe ad individuare nuove pratiche, di breve o lunga durata, ma comunque di tipo temporaneo, specifiche a gestire i determinati problemi contingenti. Superato questo frangente transitorio, caratterizzato da occasionali sperimentazioni effimere, lo spazio urbano si riappropria della sua identità e viene rivissuto alla stessa stregua precedente la crisi. Quando lo spazio pubblico, inteso nella sua convenzionale accezione di luogo dell’incontro o "finestra sull'anima della città" come lo ha definito Sharon Zukin, non è predisposto a garantire il distanziamento e lo svolgimento in sicurezza delle ordinarie attività che in esso tradizionalmente si svolgono, si riproduce in altre forme provvisorie. O meglio ancora, lo spazio pubblico aperto si è adeguato per accogliere attività generalmente praticate in ambienti chiusi, esprimendosi in una diversa conformazione progettuale per consentire di praticare in sicurezza attività o spettacoli pubblici: come è accaduto a Venezia con l’appropriazione degli spazi d’acqua o nel riadattamento evidenziato dalla colonizzazione di marciapiedi con il posizionamento predeterminato di arredi. Le recenti installazioni a Castelfranco Emilia, Piazza Giotto a Vicchio, in Italia, o il cinema all'aperto ricavato sulle piste di atterraggio dell'aeroporto di Vilnius, The Gastro Safe Zone a Brno e il Lollypop Lounge a King's Cross a Londra dimostrano quanto le interazioni con il prossimo costringano a immaginare modalità di ripopolamento e di contatto condizionanti l'organizzazione dello spazio aperto. Tali esperienze dimostrano come la carenza di spazio pubblico sia maggiore in periferia, dove questo limite si amplifica proprio per la mancanza di ambiti adeguati rispetto al centro storico, ripercuotendosi conseguentemente e gravemente sui suoi abitanti e quindi tra le classi meno abbienti, che risultano ancora una volta le più penalizzate. Questa pluralità di configurazioni conferma in realtà la proprietà di transizione e di riadattamento a svariate possibili funzioni che per sua natura lo spazio pubblico può accogliere. La piazza è sempre stata nel tempo un luogo metamorfico, capace di ospitare indifferentemente esercitazioni militari, parcheggi d’auto, feste popolari, mercati, eventi ludici e culturali, divenendo addirittura una vasca d’acqua come Piazza Navona, o ancora teatro di manifestazioni politiche, religiose o di protesta. Anche se i codici attuativi teorizzati negli ultimi duecento anni dovranno essere aggiornati, non si tratta di intervenire sugli spazi pubblici storici già esistenti, quanto di immaginare nuove norme per la modellazione della miriade di vuoti urbani dispersi nelle città contemporanee. Se le misure anticontagio attuate per scongiurare il pericolo virale come il confinamento, l’impedimento della circolazione e la quarantena appaiono in prima battuta antitetiche alla abitudinaria frequentazione dello spazio pubblico, in quanto territorio dell’incontro, in realtà queste esperienze restrittive ne hanno fatto riemergere tutte le potenzialità estetiche: ammirare il vuoto derivato dall’inutilizzo e dallo spopolamento permette di cogliere prospettive urbane, in cui contemplare la bellezza delle architetture che lo generano come già Luigi Ghirri aveva indicato con alcune sue magistrali fotografie di piazze delle città emiliane. Le vedute disabitate di Piazza San Marco o di San Pietro, come le mille altre piazze d’Italia dei centri minori mostrate dalle televisioni di tutto il mondo la scorsa primavera restano impresse nella memoria come incisioni contemporanee, svelando la quintessenza dello spazio pubblico. Non sarà necessario quindi nessun pensiero nuovo. Non c’è urgenza di altre rivoluzioni o appelli alla resilienza. Se la crisi pandemica mondiale sta avviando una consistente sostituzione degli oggetti d’uso comune e delle tecnolgie digitali (dai social distancing markers ai dispositivi wearable), affidando al design industriale i reali processi di innovazione, lo spazio pubblico tradizionale delle città non necessiterà di alcun cambiamento d’identità e, superata l’emergenza, si riadatterà al proprio carattere di luogo per l’affollamento, proprio per effetto della sua univoca struttura compositiva. I veri processi di trasformazione dovranno riguardare le aree dismesse, il recupero di ambiti abbandonati, la ridefinizione di zone incolte. In tal senso un esempio virtuoso è il Parco dei Salici in corso di realizzazione a Padova. Nato come progetto partecipativo per riqualificare un vuoto residuale inedificato, coinvolgendo gli abitanti del quartiere periferico della Guizza, il gruppo di lavoro del G124 di Renzo Piano, coordinato dal prof. Edoardo Narne, ha definito una strategia di configurazione dello spazio verde impostata sui criteri del distanziamento fisico, ma non sociale, concepito per dare origine ad un bosco urbano perenne a servizio della città. Una tematica urgente con cui prefigurare l’ambiente metropolitano del futuro è dunque progettare il vuoto delle periferie, aumentando a dismisura lo spazio pubblico attrezzato. Fare nuovi spazi, investendo le risorse pubbliche disponibili non in infrastrutture pesanti (autostrade, tangenziali, o in genere corridoi d’asfalto impattanti sull’ambiente), ma promuovendo il recupero e l’innesto di una costellazione di spazi pubblici nuovi, relazionati tra loro, anche di piccole dimensioni, capaci di accogliere e ospitare tutte le tipologie di comunità sociali, in un processo di organizzazione dei luoghi esistenti e di fabbricazione di maggior spazio usufruibile, agevolando l’insediamento capillare di micro attività commerciali e ristorative al dettaglio, di botteghe d'artigianato e attività culturali. Questo arricchimento del territorio, nel quale interverranno artisti, architetti, botanici, si espanderà ai tetti dei condomini da ripensare come aree della convivialità, alla pedonalizzazione delle strade, all'allargamento di marciapiedi e ciclabili, a vicoli, angoli pittoreschi, giardini, parchi, campus universitari, dove si dovranno far crescere alberi, inserire opere d’arte urbana come dimostrano gli ultimi site specific di Edoardo Tresoldi a Reggio Calabria e a Bologna. Costringere verso questo sviluppo quantitativo e all'incremento di spazio pubblico consentirà di superare le problematiche di coesistenza e fronteggiare l'ondata devastante del cambiamento climatico. Il nuovo millennio si è manifestato con vent’anni di ritardo: sarebbe un errore di metodo auspicare di reinventare gli spazi secolari di piazze, parchi, passeggiate, lungomare, strade. Occorrerà invece accelerare su questo riadattamento di aree di risulta, abbandonate o sottoutilizzate, favorendone la naturalizzazione con ingenti piantumazioni arboree e concentrando qui gli esercizi per le pratiche di un progetto urbano orientato a verificare nuovi e inediti scenari per la costruzione di uno spazio pubblico alternativo. L’iconografia urbana generata dalla pausa sociale epidemica ha mostrato lo spazio pubblico nella sua forma classica, già nota dalle raffigurazioni delle città ideali rinascimentali. Privato di persone e con la sparizione delle automobili, lo spazio pubblico si è svelato in una moltitudine di superfici disponibili da trasformare in campi urbani verdi concepiti per la preservazione della biodiversità. Come ci ricorda Stefano Mancuso, e volgendo lo sguardo indietro ad alcuni progetti di Emilio Ambasz, la città dopo il 2020 dovrà essere conquistata dalla natura che potrà crescervi all’interno. Il vero cambiamento non sarà mutare lo spazio pubblico, ma l’idea di città: ricoprirle interamente di alberi, per risolvere il problema della sopravvivenza della specie e dell'inquinamento globale.
2020
Matteo Agnoletto (2020). Progettare il vuoto. DOMUS, 1052, 12-13.
Matteo Agnoletto
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