Con la pubblicazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione nel 2007 e con l’emanazione dell’Accordo di integrazione nel 2009, l’Italia ha ufficialmente aderito alla prospettiva della civic integration. Questa visione delle politiche di inclusione dei non cittadini, negli ultimi quindici anni, si è andata affermando in buona parte dell’Europa: apparsa in Olanda sul finire degli anni Novanta, si è poi rapidamente diffusa in molti stati dell’Unione (Carrera e Wiesbrock 2009; Kostakopoulou 2010). In breve, l’idea di integrazione civica si traduce concretamente in specifici obblighi nei confronti dei cittadini di paesi non comunitari, i quali sono tenuti a soddisfare alcuni requisiti per essere autorizzati a fare ingresso e/o a soggiornare nel territorio di uno stato europeo. Più in dettaglio, questi soggetti sono tenuti ad apprendere la lingua del paese ospitante e i suoi valori civici e culturali, superando esami e test che certificano il raggiungimento dei requisiti linguistici e civici (Joppke e Morawska 2003). In Italia, con l’introduzione dell’Accordo, l’integrazione, da diritto, si trasforma in dovere (Biondi dal Monte e Vrenna 2013) – dimostrare di essere “integrati” diventa una condizione necessaria per il proseguimento del soggiorno legale –, mentre si registra una controversa intersezione tra politiche di ammissione e politiche di integrazione (Caponio 2012). Nello specifico, il rinnovo del permesso di soggiorno è condizionato al soddisfacimento di alcuni requisiti: tra questi, il conseguimento di un certo livello di conoscenza della lingua, delle istituzioni e della cultura civica italiane. I contenuti della declinazione italiana della civic integration sono definiti nel Piano per l’integrazione nella sicurezza Identità e Incontro del 2010, una sorta di documento programmatico che esprime la strategia del governo italiano in materia di inclusione degli stranieri. Il Piano, oltre a descrivere l’immigrazione in Italia come un fenomeno temporaneo e non strutturale, veicola un approccio differenzialista e culturalista al tema dell’integrazione (Gargiulo 2012 e 2014; Russo Spena e Carbone 2014): i non cittadini sono sostanzialmente rappresentati come soggetti radicalmente diversi dai cittadini e come potenziali minacce alla sicurezza e all’integrità nazionali; come tali, sono tenuti ad accettare le regole e i valori della comunità italiana se vogliono continuare a risiedere legalmente in Italia. La visione dell’integrazione che emerge dal Piano – e, più in generale, da altri documenti di policy e da discorsi politici che, finora, hanno accompagnato e definito l’adesione italiana al modello della civic integration – è estremamente interessante, e decisamente poco studiata in Italia, dalla prospettiva degli studi sul nazionalismo. Questa visione, infatti, si ispira esplicitamente a un modello di nazionalismo di tipo civico – i non cittadini, formalmente, sono tenuti in maniera esclusiva ad adeguarsi alle regole “repubblicane” e “costituzionali” – ma presenta evidenti caratteri di un nazionalismo di tipo etnico – la comunità italiana è definita, ma non descritta in maniera chiara e credibile, come un’entità coesa e culturalmente unitaria, a cui si contrappongono gruppi nitidamente diversi. Di conseguenza, le interazioni tra cittadini e non cittadini sono lette da una prospettiva esclusivamente culturale e non materiale. Inoltre, l’accento sulla dimensione della sicurezza tende a enfatizzare la dimensione conflittuale, nascondendo o comunque mettendo in secondo piano dinamiche relazionali che, di fatto e al di fuori delle analisi istituzionali, contribuiscono, nel quotidiano, alla costruzione di una nazione di cui fanno parte tanto i cittadini in senso formale quanto gli stranieri residenti in Italia.

Differenzialista e selettiva: la via italiana alla civic integration e la sua rilevanza per gli studi sul nazionalismo

Enrico Gargiulo
2018

Abstract

Con la pubblicazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione nel 2007 e con l’emanazione dell’Accordo di integrazione nel 2009, l’Italia ha ufficialmente aderito alla prospettiva della civic integration. Questa visione delle politiche di inclusione dei non cittadini, negli ultimi quindici anni, si è andata affermando in buona parte dell’Europa: apparsa in Olanda sul finire degli anni Novanta, si è poi rapidamente diffusa in molti stati dell’Unione (Carrera e Wiesbrock 2009; Kostakopoulou 2010). In breve, l’idea di integrazione civica si traduce concretamente in specifici obblighi nei confronti dei cittadini di paesi non comunitari, i quali sono tenuti a soddisfare alcuni requisiti per essere autorizzati a fare ingresso e/o a soggiornare nel territorio di uno stato europeo. Più in dettaglio, questi soggetti sono tenuti ad apprendere la lingua del paese ospitante e i suoi valori civici e culturali, superando esami e test che certificano il raggiungimento dei requisiti linguistici e civici (Joppke e Morawska 2003). In Italia, con l’introduzione dell’Accordo, l’integrazione, da diritto, si trasforma in dovere (Biondi dal Monte e Vrenna 2013) – dimostrare di essere “integrati” diventa una condizione necessaria per il proseguimento del soggiorno legale –, mentre si registra una controversa intersezione tra politiche di ammissione e politiche di integrazione (Caponio 2012). Nello specifico, il rinnovo del permesso di soggiorno è condizionato al soddisfacimento di alcuni requisiti: tra questi, il conseguimento di un certo livello di conoscenza della lingua, delle istituzioni e della cultura civica italiane. I contenuti della declinazione italiana della civic integration sono definiti nel Piano per l’integrazione nella sicurezza Identità e Incontro del 2010, una sorta di documento programmatico che esprime la strategia del governo italiano in materia di inclusione degli stranieri. Il Piano, oltre a descrivere l’immigrazione in Italia come un fenomeno temporaneo e non strutturale, veicola un approccio differenzialista e culturalista al tema dell’integrazione (Gargiulo 2012 e 2014; Russo Spena e Carbone 2014): i non cittadini sono sostanzialmente rappresentati come soggetti radicalmente diversi dai cittadini e come potenziali minacce alla sicurezza e all’integrità nazionali; come tali, sono tenuti ad accettare le regole e i valori della comunità italiana se vogliono continuare a risiedere legalmente in Italia. La visione dell’integrazione che emerge dal Piano – e, più in generale, da altri documenti di policy e da discorsi politici che, finora, hanno accompagnato e definito l’adesione italiana al modello della civic integration – è estremamente interessante, e decisamente poco studiata in Italia, dalla prospettiva degli studi sul nazionalismo. Questa visione, infatti, si ispira esplicitamente a un modello di nazionalismo di tipo civico – i non cittadini, formalmente, sono tenuti in maniera esclusiva ad adeguarsi alle regole “repubblicane” e “costituzionali” – ma presenta evidenti caratteri di un nazionalismo di tipo etnico – la comunità italiana è definita, ma non descritta in maniera chiara e credibile, come un’entità coesa e culturalmente unitaria, a cui si contrappongono gruppi nitidamente diversi. Di conseguenza, le interazioni tra cittadini e non cittadini sono lette da una prospettiva esclusivamente culturale e non materiale. Inoltre, l’accento sulla dimensione della sicurezza tende a enfatizzare la dimensione conflittuale, nascondendo o comunque mettendo in secondo piano dinamiche relazionali che, di fatto e al di fuori delle analisi istituzionali, contribuiscono, nel quotidiano, alla costruzione di una nazione di cui fanno parte tanto i cittadini in senso formale quanto gli stranieri residenti in Italia.
2018
Nazione e nazionalismi Teorie, interpretazioni, sfide attuali, Volume I
45
60
Enrico Gargiulo
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/726656
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