La civic integration è una visione dell’integrazione dei non cittadini che, sul finire degli anni Novanta, si è affermata in molti stati europei. La diffusione di questa visione rappresenta un punto di svolta nella concezione e nella attuazione delle politiche migratorie: la facoltà di protrarre il soggiorno nel territorio dello stato «ospitante» e, in alcuni casi, la possibilità di farvi accesso sono da allora subordinate alla dimostrazione di un certo livello di conoscenza dei valori e delle regole vigenti nella comunità di arrivo. La civic integration non si riduce all’introduzione di corsi e test di lingua e cultura civica – peraltro non necessariamente vincolanti o, come nel caso italiano, di fatto finora praticamente inattuati – ma costituisce la legittimazione e il consolidamento di una lettura più ampia dei fenomeni migratori, di taglio esplicitamente «culturalista». Presentata come affine a una concezione repubblicana della nazione, e basata dunque, in teoria, sul rispetto per i valori costituzionali, non sull’interiorizzazione di norme morali o religiose, l’integrazione civica, in realtà, prevede che la «differenza» culturale tra «autoctoni» e «nuovi arrivati», immaginata come assoluta e irriducibile, debba essere contenuta attribuendo ai secondi l’obbligo di conoscere i princìpi fondanti dell’ordinamento dello stato di arrivo e, in una qualche misura, di aderirvi. In questo senso, l’integrazione civica si pone come uno strumento volto a «disciplinare» i non cittadini rendendoli «normali», ossia conformi a una norma morale e comportamentale, e a selezionare, tra questi, i più meritevoli, ossia i più «integrabili» culturalmente. Ma il disciplinamento e la selezione non riguardano soltanto la sfera della cultura, interessando anche le relazioni di lavoro e il campo economico. Gli stranieri sono chiamati ad aderire a un modello di agire sociale basato sull’autonomia individuale e sulla disponibilità ad attivarsi, in particolar modo nel mercato del lavoro. La civic integration, in altre parole, mira a costruire soggetti autonomi e autosufficienti, indipendenti dagli aiuti pubblici e privi di aspettative nei confronti dello stato sociale. La grammatica della meritevolezza e la logica del controllo sociale – che caratterizzano, fin dalle sue origini, la storia del welfare state – entrano così a far parte, sempre più, delle politiche migratorie. E lo fanno attraverso il richiamo alla sicurezza, che diventa una sorta di mantra continuamente ripetuto per legittimare interventi restrittivi dei diritti dei non cittadini. Il messaggio veicolato dalla civic integration, in sintesi, è il seguente: soltanto alcuni individui, gli stranieri, costituiscono una minaccia all’integrità, alla stabilità e all’ordine delle società europee, e questa minaccia può e deve essere disinnescata attraverso un processo di assimilazione.

Integrati ma subordinati

E. Gargiulo
2018

Abstract

La civic integration è una visione dell’integrazione dei non cittadini che, sul finire degli anni Novanta, si è affermata in molti stati europei. La diffusione di questa visione rappresenta un punto di svolta nella concezione e nella attuazione delle politiche migratorie: la facoltà di protrarre il soggiorno nel territorio dello stato «ospitante» e, in alcuni casi, la possibilità di farvi accesso sono da allora subordinate alla dimostrazione di un certo livello di conoscenza dei valori e delle regole vigenti nella comunità di arrivo. La civic integration non si riduce all’introduzione di corsi e test di lingua e cultura civica – peraltro non necessariamente vincolanti o, come nel caso italiano, di fatto finora praticamente inattuati – ma costituisce la legittimazione e il consolidamento di una lettura più ampia dei fenomeni migratori, di taglio esplicitamente «culturalista». Presentata come affine a una concezione repubblicana della nazione, e basata dunque, in teoria, sul rispetto per i valori costituzionali, non sull’interiorizzazione di norme morali o religiose, l’integrazione civica, in realtà, prevede che la «differenza» culturale tra «autoctoni» e «nuovi arrivati», immaginata come assoluta e irriducibile, debba essere contenuta attribuendo ai secondi l’obbligo di conoscere i princìpi fondanti dell’ordinamento dello stato di arrivo e, in una qualche misura, di aderirvi. In questo senso, l’integrazione civica si pone come uno strumento volto a «disciplinare» i non cittadini rendendoli «normali», ossia conformi a una norma morale e comportamentale, e a selezionare, tra questi, i più meritevoli, ossia i più «integrabili» culturalmente. Ma il disciplinamento e la selezione non riguardano soltanto la sfera della cultura, interessando anche le relazioni di lavoro e il campo economico. Gli stranieri sono chiamati ad aderire a un modello di agire sociale basato sull’autonomia individuale e sulla disponibilità ad attivarsi, in particolar modo nel mercato del lavoro. La civic integration, in altre parole, mira a costruire soggetti autonomi e autosufficienti, indipendenti dagli aiuti pubblici e privi di aspettative nei confronti dello stato sociale. La grammatica della meritevolezza e la logica del controllo sociale – che caratterizzano, fin dalle sue origini, la storia del welfare state – entrano così a far parte, sempre più, delle politiche migratorie. E lo fanno attraverso il richiamo alla sicurezza, che diventa una sorta di mantra continuamente ripetuto per legittimare interventi restrittivi dei diritti dei non cittadini. Il messaggio veicolato dalla civic integration, in sintesi, è il seguente: soltanto alcuni individui, gli stranieri, costituiscono una minaccia all’integrità, alla stabilità e all’ordine delle società europee, e questa minaccia può e deve essere disinnescata attraverso un processo di assimilazione.
2018
I confini dell’inclusione. La civic integration tra selezione e disciplinamento dei corpi migranti
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83
E. Gargiulo
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