Il Gigante di Ravenna è il titolo di un documentario ENI, per la regia di Fernando Cerchio, dedicato alla nascita e agli esordi dello stabilimento ANIC. Uscita nel 1959, tale opera, figlia degli anni del boom economico, è dichiaratamente ed esplicitamente connotata da una visione pro-ENI e da un mito tecnocratico del processo che avrebbe portato, nel giro di pochissimi anni, alla formazione di uno dei poli chimici a quel tempo più grandi in Europa, insediato a ridosso della pineta storica di San Vitale e delle valli ravennati. L’articolo approfondirà in particolare la trattazione riservata dal documentario riguardo all’impatto ambientale e paesistico dell’impianto: emerge un totale disinteresse e una colpevole mancanza di consapevolezza circa i valori naturali e culturali dell’area, in base ai quali l’abbattimento della pineta tramite ruspe è anzi assurto a una compiaciuta dimostrazione della superiorità umana rispetto alla natura; le originarie pielasse ravennati sono poi banalizzate a luogo di marginalità sociale e degrado, riscattate dall’industria chimica. Lo stesso quadro si ripete in relazione alla rappresentazione della demolizione di Monte Tondo (Riolo Terme), rilievo appartenente alla Vena del Gesso romagnola, dove l’ANIC aprì una grande cava per rifornire l’impianto di solfato di calcio. Alle immagini de Il Gigante di Ravenna saranno poi contrapposte le visioni di naturalisti come Pietro Zangheri (sin dagli anni dell’inizio dell’attività dell’ANIC, attivo contro la distruzione delle pinete, delle pielasse e dei gessi romagnoli) e di registi come Michelangelo Antonioni, che in Il deserto rosso (1964), pochi anni dopo, trasfigurò le stesse aree come il luogo per antonomasia dell’alienazione umana negli anni dell’industrializzazione.

Boom economico, paesaggio, conservazione della natura. Note a margine del documentario Il Gigante di Ravenna (1959)

Stefano Piastra
2018

Abstract

Il Gigante di Ravenna è il titolo di un documentario ENI, per la regia di Fernando Cerchio, dedicato alla nascita e agli esordi dello stabilimento ANIC. Uscita nel 1959, tale opera, figlia degli anni del boom economico, è dichiaratamente ed esplicitamente connotata da una visione pro-ENI e da un mito tecnocratico del processo che avrebbe portato, nel giro di pochissimi anni, alla formazione di uno dei poli chimici a quel tempo più grandi in Europa, insediato a ridosso della pineta storica di San Vitale e delle valli ravennati. L’articolo approfondirà in particolare la trattazione riservata dal documentario riguardo all’impatto ambientale e paesistico dell’impianto: emerge un totale disinteresse e una colpevole mancanza di consapevolezza circa i valori naturali e culturali dell’area, in base ai quali l’abbattimento della pineta tramite ruspe è anzi assurto a una compiaciuta dimostrazione della superiorità umana rispetto alla natura; le originarie pielasse ravennati sono poi banalizzate a luogo di marginalità sociale e degrado, riscattate dall’industria chimica. Lo stesso quadro si ripete in relazione alla rappresentazione della demolizione di Monte Tondo (Riolo Terme), rilievo appartenente alla Vena del Gesso romagnola, dove l’ANIC aprì una grande cava per rifornire l’impianto di solfato di calcio. Alle immagini de Il Gigante di Ravenna saranno poi contrapposte le visioni di naturalisti come Pietro Zangheri (sin dagli anni dell’inizio dell’attività dell’ANIC, attivo contro la distruzione delle pinete, delle pielasse e dei gessi romagnoli) e di registi come Michelangelo Antonioni, che in Il deserto rosso (1964), pochi anni dopo, trasfigurò le stesse aree come il luogo per antonomasia dell’alienazione umana negli anni dell’industrializzazione.
2018
Stefano Piastra
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