L’età del Nichilismo, se da un lato ha favorito la disseminazione di forme di pensiero critico, riflessivo e antidogmatico, dall’altro ha prodotto analisi fortemente connotate di pessimismo, tendenti a leggere il cammino della civiltà occidentale in termini di disagio (Freud)1, tramonto (Spengler)2, crisi (Huizinga)3, decadenza (Onfray)4. La fenomenologia che ne emerge apre a un’esperienza tutta negativa del Nichilismo che sembra perdere il suo tratto distintivo: quello – per usare parole di Erbetta – teso a includere “la negatività radicale nella struttura fondamentale dell’esistenza” per poterne dettare successivamente il “compito pedagogico”5. È un Nichilismo rinunciatario quello che serpeggia sullo sfondo di queste analisi, che pare trovare piena attuazione nel buio del postmoderno, di cui parla Bauman6. Come non chiedersi, di fronte a questo scenario, se qualcosa non si sia rotto nel cammino della civiltà, sino a disattivarne i dispositivi di senso che potrebbero continuare a favorirne l’evoluzione o se non si tratti di una battuta d’arresto, in qualche misura funzionale alla complessità delle trasformazioni in atto, che esige un lungo periodo di incubazione dei germi da cui potrà nascere la civiltà del futuro? Nell’arco di tutto il Novecento, la coscienza culturale contemporanea ha saputo imporre all’esperienza delle società occidentali una tensione al superamento di tradizioni, costumi, credenze, valori, retaggi, stili di vita e di apprendimento, di conoscenza e di educazione, che hanno profondamente mutato il volto (o, meglio, i volti) del nostro modello di civiltà. Si è trattato, com’è noto, di trasformazioni radicali, che si sono imposte attraverso l’azione di avanguardie artistiche, letterarie, filosofiche, scientifiche, le quali hanno letteralmente minato alle fondamenta le basi stesse del vivere civile in tutte le sue forme. Per riprendere le parole di Einstein, i protagonisti di quell’avventura scientifico-intellettuale si sentirono, in quegli anni, tremare la terra sotto i piedi7. Ci volle tempo, ovviamente, perché le scosse di quel sisma fossero avvertite, oltre che dai loro diretti artefici, dalla società civile tutta, così come ci volle tempo perché l’annuncio nietzscheano relativo alla morte di Dio8 fosse, se non pienamente compreso, perlomeno metabolizzato. Ci volle tempo, ma quel tempo sembrò sufficiente a generare un differente clima culturale e sociale, capace di impegnarsi nella costruzione di nuovi legami sociali e di assecondare stili di pensiero antidogmatici, non più preda dei tradizionali vincoli metafisici e/o ideologici. Le analisi di quei decenni avevano in mente una società diversa: alcuni la immaginavano come di là da venire, per effetto di un processo di secolarizzazione che scomodava i terreni dell’utopia; altri ne sollecitavano sperimentazioni più immediate e rischiose. In un caso come nell’altro, il mondo che ci si apprestava a demolire era invitato a farsi da parte, per lasciare spazio a un mondo altro, dai contorni più o meno certi o confusi, comunque, in via di realizzazione. Il pensiero critico, mentre si faceva produttore di nuovi universi di senso, sembrava fungere da interfaccia all’azione di soggetti sociali, movimenti di opinione, forze politiche e sindacali che gli delineavano possibili sbocchi politici o anche solo circuiti d’esperienza e scelte possibili nel contesto sociale. Chiediamoci: è ancora così? O in un tempo che appare sempre più ripiegato sull’esistente, anche le analisi dei nostri giorni rischiano di risultare minate dall’autoreferenzialità, col rischio di indulgere alla fascinazione del negativo? E, se questo è vero, il pensiero critico non rischia di divenire, in questo momento storico, uno degli ospiti inquietanti che fanno del nichilismo il convitato di pietra del nostro tempo? Ripensare la genesi entro cui quegli studi sono maturati può essere utile per tentare di rispondere a tali domande e per coglierne potenzialità euristiche di rilettura dell’esistente, tali da andare oltre le categorie da essi stessi enunciate.

Pensiero critico e disagio della civiltà

fabbri maurizio
2018

Abstract

L’età del Nichilismo, se da un lato ha favorito la disseminazione di forme di pensiero critico, riflessivo e antidogmatico, dall’altro ha prodotto analisi fortemente connotate di pessimismo, tendenti a leggere il cammino della civiltà occidentale in termini di disagio (Freud)1, tramonto (Spengler)2, crisi (Huizinga)3, decadenza (Onfray)4. La fenomenologia che ne emerge apre a un’esperienza tutta negativa del Nichilismo che sembra perdere il suo tratto distintivo: quello – per usare parole di Erbetta – teso a includere “la negatività radicale nella struttura fondamentale dell’esistenza” per poterne dettare successivamente il “compito pedagogico”5. È un Nichilismo rinunciatario quello che serpeggia sullo sfondo di queste analisi, che pare trovare piena attuazione nel buio del postmoderno, di cui parla Bauman6. Come non chiedersi, di fronte a questo scenario, se qualcosa non si sia rotto nel cammino della civiltà, sino a disattivarne i dispositivi di senso che potrebbero continuare a favorirne l’evoluzione o se non si tratti di una battuta d’arresto, in qualche misura funzionale alla complessità delle trasformazioni in atto, che esige un lungo periodo di incubazione dei germi da cui potrà nascere la civiltà del futuro? Nell’arco di tutto il Novecento, la coscienza culturale contemporanea ha saputo imporre all’esperienza delle società occidentali una tensione al superamento di tradizioni, costumi, credenze, valori, retaggi, stili di vita e di apprendimento, di conoscenza e di educazione, che hanno profondamente mutato il volto (o, meglio, i volti) del nostro modello di civiltà. Si è trattato, com’è noto, di trasformazioni radicali, che si sono imposte attraverso l’azione di avanguardie artistiche, letterarie, filosofiche, scientifiche, le quali hanno letteralmente minato alle fondamenta le basi stesse del vivere civile in tutte le sue forme. Per riprendere le parole di Einstein, i protagonisti di quell’avventura scientifico-intellettuale si sentirono, in quegli anni, tremare la terra sotto i piedi7. Ci volle tempo, ovviamente, perché le scosse di quel sisma fossero avvertite, oltre che dai loro diretti artefici, dalla società civile tutta, così come ci volle tempo perché l’annuncio nietzscheano relativo alla morte di Dio8 fosse, se non pienamente compreso, perlomeno metabolizzato. Ci volle tempo, ma quel tempo sembrò sufficiente a generare un differente clima culturale e sociale, capace di impegnarsi nella costruzione di nuovi legami sociali e di assecondare stili di pensiero antidogmatici, non più preda dei tradizionali vincoli metafisici e/o ideologici. Le analisi di quei decenni avevano in mente una società diversa: alcuni la immaginavano come di là da venire, per effetto di un processo di secolarizzazione che scomodava i terreni dell’utopia; altri ne sollecitavano sperimentazioni più immediate e rischiose. In un caso come nell’altro, il mondo che ci si apprestava a demolire era invitato a farsi da parte, per lasciare spazio a un mondo altro, dai contorni più o meno certi o confusi, comunque, in via di realizzazione. Il pensiero critico, mentre si faceva produttore di nuovi universi di senso, sembrava fungere da interfaccia all’azione di soggetti sociali, movimenti di opinione, forze politiche e sindacali che gli delineavano possibili sbocchi politici o anche solo circuiti d’esperienza e scelte possibili nel contesto sociale. Chiediamoci: è ancora così? O in un tempo che appare sempre più ripiegato sull’esistente, anche le analisi dei nostri giorni rischiano di risultare minate dall’autoreferenzialità, col rischio di indulgere alla fascinazione del negativo? E, se questo è vero, il pensiero critico non rischia di divenire, in questo momento storico, uno degli ospiti inquietanti che fanno del nichilismo il convitato di pietra del nostro tempo? Ripensare la genesi entro cui quegli studi sono maturati può essere utile per tentare di rispondere a tali domande e per coglierne potenzialità euristiche di rilettura dell’esistente, tali da andare oltre le categorie da essi stessi enunciate.
2018
Pedagogia al confine
27
38
fabbri maurizio
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/665593
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