Nel Settecento, è noto, si diffonde un terzo genere, prodotto artificialmente per scopi artistici, che compartecipa in diversa misura dell’identità maschile come di quella femminile: il castrato. Negli anni si è indagato molto sulla biografia dei più importanti esponenti di tale categoria e sul loro ruolo in società, tanto dentro ai teatri quanto al di fuori. Ma benché la loro ragion d’essere fosse in primo luogo quella canora, assai meno frequenti sono stati gli studi specifici sulla vocalità dei castrati, per il semplice motivo che – in assenza di registrazioni sonore – tutto si deve basare su sole ipotesi, supportate da descrizioni coeve e qualche nozione sulla fisiologia umana. Certo, le partiture musicali scritte per loro molto ci dicono riguardo all’estensione della voce e alla capacità di piegarla a passaggi di difficoltà suprema, ma nulla ci rivelano di più di quanto partiture analoghe sappiano dirci sulla voce delle donne o degli uomini per cui furono scritte. Quella che ci viene negata, soprattutto, è l’immagine del colore sonoro di tali voci: quanto “maschili” e quanto “femminili”? La consapevolezza che i castrati fossero un surrogato delle donne là dove non fosse possibile utilizzarle in esibizioni musicali (ad esempio, in ambito liturgico nelle chiese cattoliche) ha fatto dimenticare l’eventualità che ai castrati non fosse totalmente negata quella voce virile cui la costituzione cromosomica biologicamente li destinava, a dispetto del deficit ormonale che li penalizzava in tal senso. Attraverso la lettura di alcune testimonianze d’epoca e l’ascolto comparativo di alcune voci femminili che, per eccesso ormonale, divengono un surrogato della voce maschile, si tenta di fornire una nuova ipotesi sulla voce perduta degli antichi castrati.

La voce virile dei castrati: un'ipotesi

Marco Beghelli
2018

Abstract

Nel Settecento, è noto, si diffonde un terzo genere, prodotto artificialmente per scopi artistici, che compartecipa in diversa misura dell’identità maschile come di quella femminile: il castrato. Negli anni si è indagato molto sulla biografia dei più importanti esponenti di tale categoria e sul loro ruolo in società, tanto dentro ai teatri quanto al di fuori. Ma benché la loro ragion d’essere fosse in primo luogo quella canora, assai meno frequenti sono stati gli studi specifici sulla vocalità dei castrati, per il semplice motivo che – in assenza di registrazioni sonore – tutto si deve basare su sole ipotesi, supportate da descrizioni coeve e qualche nozione sulla fisiologia umana. Certo, le partiture musicali scritte per loro molto ci dicono riguardo all’estensione della voce e alla capacità di piegarla a passaggi di difficoltà suprema, ma nulla ci rivelano di più di quanto partiture analoghe sappiano dirci sulla voce delle donne o degli uomini per cui furono scritte. Quella che ci viene negata, soprattutto, è l’immagine del colore sonoro di tali voci: quanto “maschili” e quanto “femminili”? La consapevolezza che i castrati fossero un surrogato delle donne là dove non fosse possibile utilizzarle in esibizioni musicali (ad esempio, in ambito liturgico nelle chiese cattoliche) ha fatto dimenticare l’eventualità che ai castrati non fosse totalmente negata quella voce virile cui la costituzione cromosomica biologicamente li destinava, a dispetto del deficit ormonale che li penalizzava in tal senso. Attraverso la lettura di alcune testimonianze d’epoca e l’ascolto comparativo di alcune voci femminili che, per eccesso ormonale, divengono un surrogato della voce maschile, si tenta di fornire una nuova ipotesi sulla voce perduta degli antichi castrati.
2018
Femminile e maschile nel Settecento
303
308
Marco Beghelli
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