Tian Yu Cao (ed.), The Chinese Model of Modern Development, London, Routledge, 2005, 323 pagg. Il volume è basato sul simposio, dallo stesso titolo, tenutosi a Huangzhou il 5-7 luglio 2002, supportato dalla Facoltà di Commercio di questa città e dalla Ford Foundation. Gli atti sono invece apparsi nel 2005. Nel testo si focalizza il passaggio dal “Socialism” al “National Developmentalism” (intraducibile), movimento che rivisita la collettivizzazione, giudicata, a posteriori, un mezzo e non un fine. Infatti tutto il volume si snoda come un’apologia delle scelte del governo post dittatoriale, che non si potrebbe denominare post comunista, poiché anche il nuovo regime lo è. Il curatore apre l’introduzione con una frase di Locke: “La proprietà creata dall’attività individuale costituisce il fondamento della dignità e della responsabilità dell’individuo”, e, a giustificazione del nuovo modello cinese, richiama persino l’etica kantiana, la filosofia di Hegel e il pensiero rinascimentale, nonché greco (p. 294). Ovviamente non possono essere tralasciate, in un testo redatto da cinesi, le negatività del capitalismo, tra cui citiamo il riferimento alla competizione che causa timori e ansietà, corrodendo la psicologia e l’etica sociale, o le crisi economiche che possono portare alla miseria o procurare benefici solo ai ricchi. Il corrente modello cinese tende ad incrementare la produttività con l’avvio di un’economia di mercato, attraverso l’avanzamento di scienza e tecnica. Il mercato potrebbe arricchire pochi, ma la meta finale dovrebbe essere la prosperità per tutti (p. 299). L’originalità della politica cinese è che si basa sulle forze di mercato che sono tuttavia controllate dal governo. In teoria, si dimostra che il sistema di mercato e il socialismo non sono incompatibili: la loro integrazione potrebbe dare origine ad una nuova forma di organizzazione sociale, una “modernità alternativa”, altrimenti chiamata “Comprador-dependent capitalism” (p. 309). Ciò veniva già deciso durante il 14° Congresso del Partito che, nel 1992, stabiliva di legittimizzare l’economia di mercato attraverso la sua incorporazione nel sistema ideologico socialista, ossia di realizzare, in altre parole, una “democrazia economica” che fosse controllata dallo Stato. Sarebbe giusto, secondo i parametri asiatici, premiare l’attività degli imprenditori, ma occorre evitare l’irragionevole sistema che concede loro la maggior parte dei profitti; quindi l’ideale sarebbe una remunerazione che conceda agli imprenditori socialisti solo leggeri incentivi, quali possono essere dati ad altri lavoratori di merito, per evitare gli scandali avvenuti in USA e Giappone. Lo slogan della moderna democrazia dovrebbe essere: “Prosperità per tutti”, deviando gli ideali socialisti dall’occidentale slogan: “Priorità dello sviluppo” che fa propendere verso inclinazioni capitalistiche “traditrici”. Nel concreto della realtà cinese, tuttavia, il prezzo della stabilità coinvolge la soppressione delle rivendicazioni democratiche e la copertura delle contraddizioni sociali (p. 313). Infatti il maggior problema attuale è l’estrema asimmetrica relazione tra il potere del capitale, specialmente estero, e la debolezza della forza lavoro. Ciò che resta dell’eredità di Mao sono le quattro libertà: big criticism, big opening, big character poster, big debate.

TIAN YU CAO (ed.), The Chinese Model of Modern Development, London, Routledge, 2005 / GALVANI A.. - In: ANNALI DI RICERCHE E STUDI DI GEOGRAFIA. - ISSN 0392-8713. - STAMPA. - LXII:(2006), pp. 126-127.

TIAN YU CAO (ed.), The Chinese Model of Modern Development, London, Routledge, 2005.

GALVANI, ADRIANA
2006

Abstract

Tian Yu Cao (ed.), The Chinese Model of Modern Development, London, Routledge, 2005, 323 pagg. Il volume è basato sul simposio, dallo stesso titolo, tenutosi a Huangzhou il 5-7 luglio 2002, supportato dalla Facoltà di Commercio di questa città e dalla Ford Foundation. Gli atti sono invece apparsi nel 2005. Nel testo si focalizza il passaggio dal “Socialism” al “National Developmentalism” (intraducibile), movimento che rivisita la collettivizzazione, giudicata, a posteriori, un mezzo e non un fine. Infatti tutto il volume si snoda come un’apologia delle scelte del governo post dittatoriale, che non si potrebbe denominare post comunista, poiché anche il nuovo regime lo è. Il curatore apre l’introduzione con una frase di Locke: “La proprietà creata dall’attività individuale costituisce il fondamento della dignità e della responsabilità dell’individuo”, e, a giustificazione del nuovo modello cinese, richiama persino l’etica kantiana, la filosofia di Hegel e il pensiero rinascimentale, nonché greco (p. 294). Ovviamente non possono essere tralasciate, in un testo redatto da cinesi, le negatività del capitalismo, tra cui citiamo il riferimento alla competizione che causa timori e ansietà, corrodendo la psicologia e l’etica sociale, o le crisi economiche che possono portare alla miseria o procurare benefici solo ai ricchi. Il corrente modello cinese tende ad incrementare la produttività con l’avvio di un’economia di mercato, attraverso l’avanzamento di scienza e tecnica. Il mercato potrebbe arricchire pochi, ma la meta finale dovrebbe essere la prosperità per tutti (p. 299). L’originalità della politica cinese è che si basa sulle forze di mercato che sono tuttavia controllate dal governo. In teoria, si dimostra che il sistema di mercato e il socialismo non sono incompatibili: la loro integrazione potrebbe dare origine ad una nuova forma di organizzazione sociale, una “modernità alternativa”, altrimenti chiamata “Comprador-dependent capitalism” (p. 309). Ciò veniva già deciso durante il 14° Congresso del Partito che, nel 1992, stabiliva di legittimizzare l’economia di mercato attraverso la sua incorporazione nel sistema ideologico socialista, ossia di realizzare, in altre parole, una “democrazia economica” che fosse controllata dallo Stato. Sarebbe giusto, secondo i parametri asiatici, premiare l’attività degli imprenditori, ma occorre evitare l’irragionevole sistema che concede loro la maggior parte dei profitti; quindi l’ideale sarebbe una remunerazione che conceda agli imprenditori socialisti solo leggeri incentivi, quali possono essere dati ad altri lavoratori di merito, per evitare gli scandali avvenuti in USA e Giappone. Lo slogan della moderna democrazia dovrebbe essere: “Prosperità per tutti”, deviando gli ideali socialisti dall’occidentale slogan: “Priorità dello sviluppo” che fa propendere verso inclinazioni capitalistiche “traditrici”. Nel concreto della realtà cinese, tuttavia, il prezzo della stabilità coinvolge la soppressione delle rivendicazioni democratiche e la copertura delle contraddizioni sociali (p. 313). Infatti il maggior problema attuale è l’estrema asimmetrica relazione tra il potere del capitale, specialmente estero, e la debolezza della forza lavoro. Ciò che resta dell’eredità di Mao sono le quattro libertà: big criticism, big opening, big character poster, big debate.
2006
TIAN YU CAO (ed.), The Chinese Model of Modern Development, London, Routledge, 2005 / GALVANI A.. - In: ANNALI DI RICERCHE E STUDI DI GEOGRAFIA. - ISSN 0392-8713. - STAMPA. - LXII:(2006), pp. 126-127.
GALVANI A.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/57125
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