Mentre il modello di sviluppo che ha finora sorretto un ideale di benessere sproporzionato rispetto alle capacità fisiche del pianeta sta mostrando tutti i suoi limiti, lo sviluppo tecnologico continua a lanciare ombre inquietanti sul futuro dell’agricoltura e sul benessere di tutti noi operando, sotto la logica del profitto, la manipolazione genetica delle sementi e dei prodotti alimentari che consumiamo. Il processo di modernizzazione ha finito per minare nel tempo la fiducia nella tecnocrazia e nel progresso, almeno così come lo si è inteso finora, ovvero uno sviluppo schiacciato più sugli aspetti quantitativi che su quelli qualitativi. In agricoltura, la sfida a tale forma di “riduttivismo”, lanciata ormai un secolo fa dal movimento per il biologico non pare avere ancora esaurito la sua ragion d’essere. Anzi, ormai le stesse istituzioni pubbliche nazionali e transnazionali si fanno promotrici di un necessario cambiamento di paradigma, il quale vede al centro proprio l’agricoltura biologica intesa come pratica da incentivare e modello per un’agricoltura che possa essere tutta maggiormente sostenibile. L’obiettivo di uno sviluppo su larga scala dell’agricoltura biologica sembra oggi, in effetti, maggiormente alla portata rispetto al passato, in quanto tale modello si affida dal punto di vista istituzionale a solide politiche transnazionali, mentre da quello economico è retto da una domanda crescente che vede nei consumatori l’altro asse di un’uscita tendenziale dalla nicchia in cui per lungo tempo è stato confinato. Grazie infatti agli interventi normativi delle istituzioni pubbliche è stato possibile uniformare gli standard rafforzando la riconoscibilità dei prodotti, e ciò ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo di un mercato che, anche in tempi di crisi economica, mostra risultati in netta controtendenza rispetto al più generale comparto alimentare. Sempre meno sostenuto artificiosamente da sovvenzioni pubbliche, il settore dell’agricoltura biologica, sorretto da una maggiore domanda, tende ad accrescere la propria autonomia sui mercati. Ciò accade perché la trasparenza dei 10 l’italia del biologico prodotti ha incontrato (e in qualche modo alimentato) un atteggiamento dei consumatori non più esclusivamente incentrato al sé, bensì sempre più attento anche agli altri e al mondo, determinando un comportamento d’acquisto maggiormente responsabile. Tale atteggiamento è alimentato soprattutto da fattori strutturali e sistemici, ovvero dalla crescente evidenza dei rischi e delle interrelazioni tra i diversi ambiti della società contemporanea a livello ormai globale. Si tratta dei limiti dell’attuale modello di sviluppo che tendono a riportare la dimensione etica e l’azione politica all’interno delle dinamiche stesse di consumo. Il biologico, in questo senso, lungi dall’essere una sorta di moda passeggera, tende a incontrare spontaneamente esigenze emergenti e strutturali dei cosiddetti “consumatori critici”. Si tratta di quei consumatori attenti, competenti ed esigenti che non subiscono più in modo passivo le seduzioni commerciali e non si accontentano più solo del prezzo basso a ogni costo, ma cercano nei prodotti e nei produttori un rapporto di fiducia e trasparenza che vada nell’ottica tanto della salubrità del prodotto, quanto di una dimensione etica più ampia, che arrivi ad abbracciare l’intera collettività. Da questo punto di vista, l’agricoltura biologica, oltre a una maggiore salubrità del prodotto, presenta anche una maggiore sostenibilità ambientale, la quale, assieme al crescente successo di mercato, sembra identificarla quale modello ideale della cosiddetta green economy, un’economia capace di buone performance economiche nel rispetto degli equilibri ecosistemici e sociali. Nell’agricoltura biologica, infatti, le esigenze di sostenibilità si conciliano con un sistema business as usual in modo che il cambiamento ecologico possa essere ricompreso all’interno di un orizzonte di sostanziale tenuta delle esigenze dei sistemi economici e di approvvigionamento vigenti. Questo processo, tuttavia, non è del tutto indolore in quanto la crescente domanda e l’esigenza della produzione di stare al passo costringe il comparto biologico a una serie di compromessi con le esigenze del mercato, in particolare con esigenze produttive e distributive sempre più massificate. Al prender piede di quello che Michael Pollan (Pollan 2008) definisce “Big Organic”, un sistema biologico sostanzialmente industriale, corrisponde quindi una sorta di seconda ondata reattiva, che si pone l’obiettivo di andare “oltre il biologico”, e non solo dal punto di vista delle pratiche agroecologiche. Uno degli elementi critici riguarda, per esempio, l’ingresso del biologico nel circuito agroalimentare globale, un fatto che, a detta di molti, sottrarrebbe quell’elemento localistico considerato implicito nei valori dell’agricoltura biologica. Come scrive infatti Cinzia Scaffidi, di Slow Food: “Possono essere biologiche le produzioni massive che necessitano poi grandi esportatori o comunque una distribuzione di larga scala? Se il biologico riduce il suo sguardo al mero ‘prointroduzione 11 dotto senza residui’, non sta in realtà tradendo il suo stesso nome? Possono essere biologiche le produzioni di un’azienda che, con un altro ramo di investimenti, inquina e ammala il terreno? Non possono. E se una cosa dobbiamo fare, come cittadini, è sorvegliare affinché non ci rubino le parole. Perché se ce le rubano, ci rubano la possibilità di dire e di capire” (Scaffidi 2014, p. 31). Questo appello ai cittadini, che è anche un appello ai consumatori – o meglio ai nuovi “cittadini-consumatori” – si traduce, in concreto, in una svolta verso la qualità, intesa non solo come salubrità del cibo che mangiamo (garantita dai protocolli di certificazione biologica), ma anche come recupero delle identità e delle specificità dei territori locali, come impegno sociale e ambientale, come passione per la terra e per il lavoro che vi si svolge. Un approccio che, inevitabilmente, passa per il recupero di uno degli elementi da sempre impliciti nei valori dell’agricoltura biologica, ovvero la relazione, la socialità, la fiducia. La manifestazione di questo elemento implicito, impossibile da razionalizzare in procedure e standard, ricomprende nell’alveo dell’agricoltura biologica una serie di pratiche accomunate tanto dall’elemento agricolo quanto da quello sociale. L’agricoltura viene intesa in questo senso soprattutto come prossimità e socialità, ovvero come localismo e comunità. Da questo punto di vista, pur a scapito di un certo rigore normativo, viene recuperata quella specifica “gravità” che, nonostante i processi di globalizzazione in atto, vede ancora i prodotti dell’agricoltura necessariamente legati alla terra e al territorio locale, il quale può divenire (nuovamente) il principio e il punto di partenza per una risposta alle contraddizioni del nostro tempo.

L'Italia del biologico. Un fenomeno sociale dal campo alla città.

PALTRINIERI, ROBERTA;SPILLARE, STEFANO
2015

Abstract

Mentre il modello di sviluppo che ha finora sorretto un ideale di benessere sproporzionato rispetto alle capacità fisiche del pianeta sta mostrando tutti i suoi limiti, lo sviluppo tecnologico continua a lanciare ombre inquietanti sul futuro dell’agricoltura e sul benessere di tutti noi operando, sotto la logica del profitto, la manipolazione genetica delle sementi e dei prodotti alimentari che consumiamo. Il processo di modernizzazione ha finito per minare nel tempo la fiducia nella tecnocrazia e nel progresso, almeno così come lo si è inteso finora, ovvero uno sviluppo schiacciato più sugli aspetti quantitativi che su quelli qualitativi. In agricoltura, la sfida a tale forma di “riduttivismo”, lanciata ormai un secolo fa dal movimento per il biologico non pare avere ancora esaurito la sua ragion d’essere. Anzi, ormai le stesse istituzioni pubbliche nazionali e transnazionali si fanno promotrici di un necessario cambiamento di paradigma, il quale vede al centro proprio l’agricoltura biologica intesa come pratica da incentivare e modello per un’agricoltura che possa essere tutta maggiormente sostenibile. L’obiettivo di uno sviluppo su larga scala dell’agricoltura biologica sembra oggi, in effetti, maggiormente alla portata rispetto al passato, in quanto tale modello si affida dal punto di vista istituzionale a solide politiche transnazionali, mentre da quello economico è retto da una domanda crescente che vede nei consumatori l’altro asse di un’uscita tendenziale dalla nicchia in cui per lungo tempo è stato confinato. Grazie infatti agli interventi normativi delle istituzioni pubbliche è stato possibile uniformare gli standard rafforzando la riconoscibilità dei prodotti, e ciò ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo di un mercato che, anche in tempi di crisi economica, mostra risultati in netta controtendenza rispetto al più generale comparto alimentare. Sempre meno sostenuto artificiosamente da sovvenzioni pubbliche, il settore dell’agricoltura biologica, sorretto da una maggiore domanda, tende ad accrescere la propria autonomia sui mercati. Ciò accade perché la trasparenza dei 10 l’italia del biologico prodotti ha incontrato (e in qualche modo alimentato) un atteggiamento dei consumatori non più esclusivamente incentrato al sé, bensì sempre più attento anche agli altri e al mondo, determinando un comportamento d’acquisto maggiormente responsabile. Tale atteggiamento è alimentato soprattutto da fattori strutturali e sistemici, ovvero dalla crescente evidenza dei rischi e delle interrelazioni tra i diversi ambiti della società contemporanea a livello ormai globale. Si tratta dei limiti dell’attuale modello di sviluppo che tendono a riportare la dimensione etica e l’azione politica all’interno delle dinamiche stesse di consumo. Il biologico, in questo senso, lungi dall’essere una sorta di moda passeggera, tende a incontrare spontaneamente esigenze emergenti e strutturali dei cosiddetti “consumatori critici”. Si tratta di quei consumatori attenti, competenti ed esigenti che non subiscono più in modo passivo le seduzioni commerciali e non si accontentano più solo del prezzo basso a ogni costo, ma cercano nei prodotti e nei produttori un rapporto di fiducia e trasparenza che vada nell’ottica tanto della salubrità del prodotto, quanto di una dimensione etica più ampia, che arrivi ad abbracciare l’intera collettività. Da questo punto di vista, l’agricoltura biologica, oltre a una maggiore salubrità del prodotto, presenta anche una maggiore sostenibilità ambientale, la quale, assieme al crescente successo di mercato, sembra identificarla quale modello ideale della cosiddetta green economy, un’economia capace di buone performance economiche nel rispetto degli equilibri ecosistemici e sociali. Nell’agricoltura biologica, infatti, le esigenze di sostenibilità si conciliano con un sistema business as usual in modo che il cambiamento ecologico possa essere ricompreso all’interno di un orizzonte di sostanziale tenuta delle esigenze dei sistemi economici e di approvvigionamento vigenti. Questo processo, tuttavia, non è del tutto indolore in quanto la crescente domanda e l’esigenza della produzione di stare al passo costringe il comparto biologico a una serie di compromessi con le esigenze del mercato, in particolare con esigenze produttive e distributive sempre più massificate. Al prender piede di quello che Michael Pollan (Pollan 2008) definisce “Big Organic”, un sistema biologico sostanzialmente industriale, corrisponde quindi una sorta di seconda ondata reattiva, che si pone l’obiettivo di andare “oltre il biologico”, e non solo dal punto di vista delle pratiche agroecologiche. Uno degli elementi critici riguarda, per esempio, l’ingresso del biologico nel circuito agroalimentare globale, un fatto che, a detta di molti, sottrarrebbe quell’elemento localistico considerato implicito nei valori dell’agricoltura biologica. Come scrive infatti Cinzia Scaffidi, di Slow Food: “Possono essere biologiche le produzioni massive che necessitano poi grandi esportatori o comunque una distribuzione di larga scala? Se il biologico riduce il suo sguardo al mero ‘prointroduzione 11 dotto senza residui’, non sta in realtà tradendo il suo stesso nome? Possono essere biologiche le produzioni di un’azienda che, con un altro ramo di investimenti, inquina e ammala il terreno? Non possono. E se una cosa dobbiamo fare, come cittadini, è sorvegliare affinché non ci rubino le parole. Perché se ce le rubano, ci rubano la possibilità di dire e di capire” (Scaffidi 2014, p. 31). Questo appello ai cittadini, che è anche un appello ai consumatori – o meglio ai nuovi “cittadini-consumatori” – si traduce, in concreto, in una svolta verso la qualità, intesa non solo come salubrità del cibo che mangiamo (garantita dai protocolli di certificazione biologica), ma anche come recupero delle identità e delle specificità dei territori locali, come impegno sociale e ambientale, come passione per la terra e per il lavoro che vi si svolge. Un approccio che, inevitabilmente, passa per il recupero di uno degli elementi da sempre impliciti nei valori dell’agricoltura biologica, ovvero la relazione, la socialità, la fiducia. La manifestazione di questo elemento implicito, impossibile da razionalizzare in procedure e standard, ricomprende nell’alveo dell’agricoltura biologica una serie di pratiche accomunate tanto dall’elemento agricolo quanto da quello sociale. L’agricoltura viene intesa in questo senso soprattutto come prossimità e socialità, ovvero come localismo e comunità. Da questo punto di vista, pur a scapito di un certo rigore normativo, viene recuperata quella specifica “gravità” che, nonostante i processi di globalizzazione in atto, vede ancora i prodotti dell’agricoltura necessariamente legati alla terra e al territorio locale, il quale può divenire (nuovamente) il principio e il punto di partenza per una risposta alle contraddizioni del nostro tempo.
2015
182
978-88-6627-140-6
Paltrinieri, Roberta; Spillare, Stefano
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