Il volume è un omaggio alla carriera del grande antropologo srilankese G. Obeyesekere, assai noto, tra l’altro, per la polemica con Marshall Sahlins a proposito dell’interpretazione dell’uccisione del capitano Cook alle Hawaii. Gli studi di Obeyesekere, pur avendo come aree di riferimento il contesto asiatico e l’antropologia, attraversano ampiamente i confini disciplinari, e nel volume troviamo dunque raccolti contributi di antropologi, sociologi, linguisti, e di storici dell’arte e delle religioni: una ricchezza che non mancherà di affascinare il lettore. Nella prima sezione, dal titolo “The Indian Tradition and its Representation”, P. Mitter indaga la matrice evoluzionista e razzista della rappresentazione coloniale dell’India, J. Nemec illustra la complessità delle relazioni maestro-discepolo nel grande poema epico Mahābhārata, P. Olivelle presenta un quadro sintetico delle pratiche rituali induiste riservate agli antenati e infine D. Shulman propone una riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione nella teoria estetica indiana. La sezione “Caste, Kinship, Land and Community” si apre con un saggio di L.A. Babb sui contrasti castali che si sviluppano attorno al culto di una dea, prosegue con l’articolo di J. Brow relativo all’introduzione del lavoro obbligatorio nell’ambito di un progetto progressista nella Ceylon del 1800, per poi concludersi con uno studio di D. McGilvray sui processi storici che hanno portato all’istituzione, nello Sri Lanka orientale, di un sistema fondato sulla dote e sulla matrilocalità. In “Renunciation and Power” sono raccolti articoli di A. Appadurai, del curatore del volume e di P. Van der Veer. Appadurai, riflettendo sul rapporto tra violenza e non violenza nella politica di Gandhi, sostiene come di tali attività (nell’accezione di Arendt) sia necessario indagare le rispettive genealogie; in tal senso Appadurai coglie nell’ascetismo guerriero “una fonte vitale per le politiche della religiosità militante dell’India di oggi” (p. 163). Anche Seneviratne indaga sulla religiosità militante, in questo caso quella dei monaci buddhisti srilankesi: partendo dal resoconto di un atto di vandalismo nei confronti delle figure affrescate da un’artista olandese sulle pareti di un tempio, l’autore ricostruisce magistralmente l’intreccio tra eredità coloniale, istanze nazionaliste e intolleranza religiosa che ha contraddistinto, e contraddistingue anche oggi, la storia dello Sri Lanka. Van der Veer, sulla scia degli interrogativi di T. Asad relativi alla liceità di impiegare la moderna nozione di agency per la comprensione di tradizioni culturali non occidentali, mette in luce la peculiarità della figura dell’asceta in ambito indiano e propone una riflessione sul rapporto tra ascetismo e nazionalismo attraverso l’analisi della figura di Swami Vivekananda e della sua traduzione del messaggio di Ramakrishna. La sezione “Buddhism Transformed” raccoglie l’articolo di D.K. Swearer - un’indagine storica sull’unificazione nazionale del buddhismo thai e sul buddhismo “impegnato” - e i saggi di A.M. Blackburn e di S. Kemper, entrambi dedicati al buddhismo srilankese e al concetto di “buddhismo protestante” introdotto da Obeyesekere nel 1970. Nella sezione “The Enigma of the Text” W. Doniger analizza il Kāmasūtra nei termini di una mitologia costruita “applicando al sesso la politica machiavellica dell’Arthaśāstra” (p. 312), K. Malalgoda ci offre una dimostrazione dell’apocrificità di un testo buddhista, il Mandārampura Puvata, fondata in parte su argumenta e silentio, e R. Thapar prende in esame tre differenti tradizioni della storia di Rāma per illustrare la percezione del passato in ambienti buddhisti, vishnuiti e jainici. “The Anthropologist and the Native” è la sezione conclusive del volume, e raccoglie le riflessioni degli antropologi A. Guneratne, A. Hannoum, R.L. Stirrat e D. Rajak, M. Whitaker. Guneratne, attingendo alla sua esperienza di campo in Sri Lanka e in Nepal, offre un brillante scorcio di alcune delle problematiche connesse al posizionamento dell’antropologo, alla scelta dell’informatore, e alla ricaduta che hanno sulla raccolta di dati la ricchezza e la posizione sociale di quest’ultimo. Hannoum, sulla base di un’analisi del dibattito tra Obeyesekere e Sahlins, valuta criticamente l’idea di “antropologo nativo”. Stirrat e Rajak prendono in considerazione il ruolo della “visita sul campo” nell’ambito dei progetti di sviluppo. Utilizzando come esempio il sopralluogo di due specialisti in un villaggio vietnamita, gli autori suggeriscono di interpretare la “visita sul campo” nei termini di un rituale che crea una visione idilliaca della realtà dalla quale sono esclusi il conflitto e la competizione e mettono in luce le analogie, assai problematiche, tra questa pratica delle agenzie dello sviluppo e la pratica della ricerca sul campo degli antropologi. Whitaker indaga la percezione dei diritti umani - sottolineandone l’incoerenza interna - tra i suoi studenti americani e due gruppi di tamil srilankesi; attingendo al concetto di “razionalità pratica” introdotto da Weber e utilizzato da Obeyesekere nel suo dibattito con Sahlins, Whitaker vi ravvisa “la sola speranza che abbiamo - in questi tempi terribili in cui il distacco morale non è più possibile - di trovare in tutti i discorsi sui diritti umani qualcosa di ‘universale’ […] che ci permetta di costruire e riconoscere un’etica pratica transculturale” (p. 485).

The Anthropologist and the Native. Essays for Gananath Obeyesekere (RECENSIONE)

NATALI, CRISTIANA
2011

Abstract

Il volume è un omaggio alla carriera del grande antropologo srilankese G. Obeyesekere, assai noto, tra l’altro, per la polemica con Marshall Sahlins a proposito dell’interpretazione dell’uccisione del capitano Cook alle Hawaii. Gli studi di Obeyesekere, pur avendo come aree di riferimento il contesto asiatico e l’antropologia, attraversano ampiamente i confini disciplinari, e nel volume troviamo dunque raccolti contributi di antropologi, sociologi, linguisti, e di storici dell’arte e delle religioni: una ricchezza che non mancherà di affascinare il lettore. Nella prima sezione, dal titolo “The Indian Tradition and its Representation”, P. Mitter indaga la matrice evoluzionista e razzista della rappresentazione coloniale dell’India, J. Nemec illustra la complessità delle relazioni maestro-discepolo nel grande poema epico Mahābhārata, P. Olivelle presenta un quadro sintetico delle pratiche rituali induiste riservate agli antenati e infine D. Shulman propone una riflessione sul rapporto tra realtà e rappresentazione nella teoria estetica indiana. La sezione “Caste, Kinship, Land and Community” si apre con un saggio di L.A. Babb sui contrasti castali che si sviluppano attorno al culto di una dea, prosegue con l’articolo di J. Brow relativo all’introduzione del lavoro obbligatorio nell’ambito di un progetto progressista nella Ceylon del 1800, per poi concludersi con uno studio di D. McGilvray sui processi storici che hanno portato all’istituzione, nello Sri Lanka orientale, di un sistema fondato sulla dote e sulla matrilocalità. In “Renunciation and Power” sono raccolti articoli di A. Appadurai, del curatore del volume e di P. Van der Veer. Appadurai, riflettendo sul rapporto tra violenza e non violenza nella politica di Gandhi, sostiene come di tali attività (nell’accezione di Arendt) sia necessario indagare le rispettive genealogie; in tal senso Appadurai coglie nell’ascetismo guerriero “una fonte vitale per le politiche della religiosità militante dell’India di oggi” (p. 163). Anche Seneviratne indaga sulla religiosità militante, in questo caso quella dei monaci buddhisti srilankesi: partendo dal resoconto di un atto di vandalismo nei confronti delle figure affrescate da un’artista olandese sulle pareti di un tempio, l’autore ricostruisce magistralmente l’intreccio tra eredità coloniale, istanze nazionaliste e intolleranza religiosa che ha contraddistinto, e contraddistingue anche oggi, la storia dello Sri Lanka. Van der Veer, sulla scia degli interrogativi di T. Asad relativi alla liceità di impiegare la moderna nozione di agency per la comprensione di tradizioni culturali non occidentali, mette in luce la peculiarità della figura dell’asceta in ambito indiano e propone una riflessione sul rapporto tra ascetismo e nazionalismo attraverso l’analisi della figura di Swami Vivekananda e della sua traduzione del messaggio di Ramakrishna. La sezione “Buddhism Transformed” raccoglie l’articolo di D.K. Swearer - un’indagine storica sull’unificazione nazionale del buddhismo thai e sul buddhismo “impegnato” - e i saggi di A.M. Blackburn e di S. Kemper, entrambi dedicati al buddhismo srilankese e al concetto di “buddhismo protestante” introdotto da Obeyesekere nel 1970. Nella sezione “The Enigma of the Text” W. Doniger analizza il Kāmasūtra nei termini di una mitologia costruita “applicando al sesso la politica machiavellica dell’Arthaśāstra” (p. 312), K. Malalgoda ci offre una dimostrazione dell’apocrificità di un testo buddhista, il Mandārampura Puvata, fondata in parte su argumenta e silentio, e R. Thapar prende in esame tre differenti tradizioni della storia di Rāma per illustrare la percezione del passato in ambienti buddhisti, vishnuiti e jainici. “The Anthropologist and the Native” è la sezione conclusive del volume, e raccoglie le riflessioni degli antropologi A. Guneratne, A. Hannoum, R.L. Stirrat e D. Rajak, M. Whitaker. Guneratne, attingendo alla sua esperienza di campo in Sri Lanka e in Nepal, offre un brillante scorcio di alcune delle problematiche connesse al posizionamento dell’antropologo, alla scelta dell’informatore, e alla ricaduta che hanno sulla raccolta di dati la ricchezza e la posizione sociale di quest’ultimo. Hannoum, sulla base di un’analisi del dibattito tra Obeyesekere e Sahlins, valuta criticamente l’idea di “antropologo nativo”. Stirrat e Rajak prendono in considerazione il ruolo della “visita sul campo” nell’ambito dei progetti di sviluppo. Utilizzando come esempio il sopralluogo di due specialisti in un villaggio vietnamita, gli autori suggeriscono di interpretare la “visita sul campo” nei termini di un rituale che crea una visione idilliaca della realtà dalla quale sono esclusi il conflitto e la competizione e mettono in luce le analogie, assai problematiche, tra questa pratica delle agenzie dello sviluppo e la pratica della ricerca sul campo degli antropologi. Whitaker indaga la percezione dei diritti umani - sottolineandone l’incoerenza interna - tra i suoi studenti americani e due gruppi di tamil srilankesi; attingendo al concetto di “razionalità pratica” introdotto da Weber e utilizzato da Obeyesekere nel suo dibattito con Sahlins, Whitaker vi ravvisa “la sola speranza che abbiamo - in questi tempi terribili in cui il distacco morale non è più possibile - di trovare in tutti i discorsi sui diritti umani qualcosa di ‘universale’ […] che ci permetta di costruire e riconoscere un’etica pratica transculturale” (p. 485).
2011
NATALI C
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