“Vista dall’esterno la scuola di Manchester era una scuola, ma vista dall’interno era una violenta contraddizione. E forse l’unica cosa che avevamo in comune era che Max [Gluckman] era il nostro maestro” (p. 181): l’affermazione di Clyde Mitchell, uno dei più noti esponenti della “scuola”, problematizza efficacemente la questione dell’affiliazione a un gruppo di ricerca che ha rappresentato un momento di svolta cruciale nella storia del pensiero antropologico. Il volume curato da Evens e Handelman – nel quale sono raccolte le relazioni di un seminario organizzato dalla European Association of Social Anthropologist nel 2002 – restituisce la complessità delle relazioni tra i membri del gruppo, anche attraverso scorci sulle strategie di studio e di lavoro adottate, ma soprattutto esamina le basi teoriche, la storia e l’applicazione del metodo di analisi dinamica dei casi (extended-case method), noto anche come “analisi situazionale”, sviluppato all’interno della scuola. Ad apertura del volume vengono riproposti un saggio di Gluckman (“Ethnographic Data in British Social Anthropology”) del 1961, nel quale emerge la critica a Malinowski e si delinea la proposta del nuovo metodo di analisi, e un saggio di Mitchell (“Case and Situation Analysis”) del 1983, nel quale l’analisi dinamica dei casi viene illustrata in modo dettagliato. Dopo questi saggi introduttivi si apre la prima sezione del volume, dedicata a problematiche di ordine teorico. Nei contributi degli stessi curatori e di A. Glaeser e di B. Kapferer vengono esaminate le implicazioni ontologiche, le prospettive e i limiti di un metodo che era stato creato per affrontare situazioni complesse in contesti di profondi mutamenti socio-politici e che concepiva la vita sociale nei termini di processo e non più di struttura. La seconda sezione include articoli di D. Mills, M. Kempny e R. Frankeberg e tratteggia, come abbiamo menzionato, il clima intellettuale nel quale prendono forma le proposte innovative della scuola di Manchester. Nella terza sezione gli autori saggiano la validità dell’analisi situazionale per la ricerca antropologica contemporanea, esprimendo a volte anche dubbi radicali nei confronti del metodo. In tal senso è esemplare quanto scrive C.B. Yamba nel suo articolo che illustra le inattese conseguenze di un progetto svedese in Zambia inteso a promuovere un capacity building per la prevenzione dell’AIDS (gli abitanti del villaggio decidono di fare appello a uno specialista in grado di individuare coloro che praticano la stregoneria, e la prova del veleno che lo specialista esige porta alla morte di sedici persone): “ho sempre pensato al metodo come a qualcosa che tutti gli antropologi fanno, senza conoscerne completamente il retroterra epistemologico o le premesse implicite” (p. 267). Altri due articoli della sezione rivolgono l’attenzione a contesti africani: B. Lindgren indaga la crisi generata dalla nomina alla successione della figlia di un capo in Zimbabwe per riflettere sull’utilità dell’applicazione del metodo di analisi dinamica dei casi alle politiche dell’etnicità e ai conflitti da queste generate; S.F. Moore - ponendosi criticamente nei confronti del lavoro di Gluckman - attraverso lo studio dello scontro tra l’anziana proprietaria tedesca di un hotel alle pendici del Kilimangiaro e alcuni funzionari del Dipartimento dello sport, è in grado di proporre un commento sul socialismo della Tanzania, in virtù del fatto che “eventi spontanei, anche se insoliti, possono essere uno strumento eccellente per illuminare la connessione [tra la vita del luogo specifico e il contesto allargato] senza rinunciare allo studio dettagliato dell’ambiente locale” (p. 309). Alla realtà svedese fa invece riferimento il contributo di K. Norman, la quale attinge, per riflettere sul rapporto tra rifugiati kosovari e istituzioni, a due diversi contesti: una struttura che ospita un progetto sanitario e psico-sociale rivolto a individui provenienti dai campi profughi della Macedonia, e una famiglia di rifugiati, con la quale l’autrice ha intrecciato una protratta frequentazione che le ha permesso di seguirne la traiettoria di progressiva affermazione sociale. Il volume termina con una “coda” nella quale B. Kapferer traccia un bilancio complessivo dei saggi presentati, non lesinando critiche, in particolare all’intervento di Moore, accusata di allinearsi troppo alle mode postmoderniste, ma anche all’ipotesi, sostenuta da A. Glaeser, di un’influenza della scuola di Chicago sul metodo di quello che Kapferer preferisce definire il “circolo” di Manchester. L’autore rivendica una spiccata autonomia intellettuale all’impresa di Gluckman e collaboratori e ritiene che l’analisi situazionale e processuale possa costituire ancora oggi uno strumento efficace del lavoro antropologico. The Manchester School è un volume di notevole interesse e, in linea con il soggetto trattato, di estrema e affascinante dinamicità.

The Manchester School. Practice and Ethnographic Praxis in Anthropology (RECENSIONE)

NATALI, CRISTIANA
2009

Abstract

“Vista dall’esterno la scuola di Manchester era una scuola, ma vista dall’interno era una violenta contraddizione. E forse l’unica cosa che avevamo in comune era che Max [Gluckman] era il nostro maestro” (p. 181): l’affermazione di Clyde Mitchell, uno dei più noti esponenti della “scuola”, problematizza efficacemente la questione dell’affiliazione a un gruppo di ricerca che ha rappresentato un momento di svolta cruciale nella storia del pensiero antropologico. Il volume curato da Evens e Handelman – nel quale sono raccolte le relazioni di un seminario organizzato dalla European Association of Social Anthropologist nel 2002 – restituisce la complessità delle relazioni tra i membri del gruppo, anche attraverso scorci sulle strategie di studio e di lavoro adottate, ma soprattutto esamina le basi teoriche, la storia e l’applicazione del metodo di analisi dinamica dei casi (extended-case method), noto anche come “analisi situazionale”, sviluppato all’interno della scuola. Ad apertura del volume vengono riproposti un saggio di Gluckman (“Ethnographic Data in British Social Anthropology”) del 1961, nel quale emerge la critica a Malinowski e si delinea la proposta del nuovo metodo di analisi, e un saggio di Mitchell (“Case and Situation Analysis”) del 1983, nel quale l’analisi dinamica dei casi viene illustrata in modo dettagliato. Dopo questi saggi introduttivi si apre la prima sezione del volume, dedicata a problematiche di ordine teorico. Nei contributi degli stessi curatori e di A. Glaeser e di B. Kapferer vengono esaminate le implicazioni ontologiche, le prospettive e i limiti di un metodo che era stato creato per affrontare situazioni complesse in contesti di profondi mutamenti socio-politici e che concepiva la vita sociale nei termini di processo e non più di struttura. La seconda sezione include articoli di D. Mills, M. Kempny e R. Frankeberg e tratteggia, come abbiamo menzionato, il clima intellettuale nel quale prendono forma le proposte innovative della scuola di Manchester. Nella terza sezione gli autori saggiano la validità dell’analisi situazionale per la ricerca antropologica contemporanea, esprimendo a volte anche dubbi radicali nei confronti del metodo. In tal senso è esemplare quanto scrive C.B. Yamba nel suo articolo che illustra le inattese conseguenze di un progetto svedese in Zambia inteso a promuovere un capacity building per la prevenzione dell’AIDS (gli abitanti del villaggio decidono di fare appello a uno specialista in grado di individuare coloro che praticano la stregoneria, e la prova del veleno che lo specialista esige porta alla morte di sedici persone): “ho sempre pensato al metodo come a qualcosa che tutti gli antropologi fanno, senza conoscerne completamente il retroterra epistemologico o le premesse implicite” (p. 267). Altri due articoli della sezione rivolgono l’attenzione a contesti africani: B. Lindgren indaga la crisi generata dalla nomina alla successione della figlia di un capo in Zimbabwe per riflettere sull’utilità dell’applicazione del metodo di analisi dinamica dei casi alle politiche dell’etnicità e ai conflitti da queste generate; S.F. Moore - ponendosi criticamente nei confronti del lavoro di Gluckman - attraverso lo studio dello scontro tra l’anziana proprietaria tedesca di un hotel alle pendici del Kilimangiaro e alcuni funzionari del Dipartimento dello sport, è in grado di proporre un commento sul socialismo della Tanzania, in virtù del fatto che “eventi spontanei, anche se insoliti, possono essere uno strumento eccellente per illuminare la connessione [tra la vita del luogo specifico e il contesto allargato] senza rinunciare allo studio dettagliato dell’ambiente locale” (p. 309). Alla realtà svedese fa invece riferimento il contributo di K. Norman, la quale attinge, per riflettere sul rapporto tra rifugiati kosovari e istituzioni, a due diversi contesti: una struttura che ospita un progetto sanitario e psico-sociale rivolto a individui provenienti dai campi profughi della Macedonia, e una famiglia di rifugiati, con la quale l’autrice ha intrecciato una protratta frequentazione che le ha permesso di seguirne la traiettoria di progressiva affermazione sociale. Il volume termina con una “coda” nella quale B. Kapferer traccia un bilancio complessivo dei saggi presentati, non lesinando critiche, in particolare all’intervento di Moore, accusata di allinearsi troppo alle mode postmoderniste, ma anche all’ipotesi, sostenuta da A. Glaeser, di un’influenza della scuola di Chicago sul metodo di quello che Kapferer preferisce definire il “circolo” di Manchester. L’autore rivendica una spiccata autonomia intellettuale all’impresa di Gluckman e collaboratori e ritiene che l’analisi situazionale e processuale possa costituire ancora oggi uno strumento efficace del lavoro antropologico. The Manchester School è un volume di notevole interesse e, in linea con il soggetto trattato, di estrema e affascinante dinamicità.
2009
NATALI C
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/374007
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