Il volume di Stefano Allovio si apre con una suggestiva analogia tra alcuni abitanti della foresta e alcuni esponenti dell’accademia, i Pigmei e gli antropologi, accomunati dalla loro condizione di marginalità rispetto alle tradizioni intellettuali occidentali: i primi perché sembrerebbero non aver elaborato alcun prodotto culturale degno di essere ospitato nel patrimonio della cultura alta, i secondi perché parrebbero occuparsi di questioni bizzarre o esotiche che non possono interessare le discipline accademicamente più consolidate. Allovio si prefigge di mettere in discussione questi radicati luoghi comuni, mostrando da un lato l’eccellenza e la complessità della cultura dei Pigmei, e dall’altro sottolineando la necessità del sapere antropologico, del quale va valorizzata, tra l’altro, la capacità critica rispetto ad altri approcci disciplinari. Nel primo capitolo l’autore affronta il tema della valorizzazione della produzione artistica pigmea, proponendo una riflessione sul concetto di “non finito” che mette a confronto la scultura di Michelangelo e i dipinti su corteccia battuta dei Pigmei mbuti: “Il passaggio repentino da un motivo a un altro nel dipingere un pongo e il contrasto che così si viene a creare sono considerati criteri di eccellenza […] Benché l’effetto ottenuto possa far pensare a un’opera non ancora terminata, oppure abbandonata a metà per chissà quali motivi, il risultato è ancora una volta connesso alla lotta contro l’uniformità e consapevolmente le artiste mbuti sottolineano la non casualità di tali vuoti. I vuoti, affermano, valorizzano i pieni” (39-40). Il secondo capitolo del volume è dedicato a una delle pratiche più importanti nella cultura dei gruppi pigmei, la spartizione della preda, il cui valore non è “immediatamente riconoscibile nel mercato riconosciuto delle tradizioni intellettuali” (52): “essa è necessariamente connessa a una rappresentazione accurata e sofisticata delle relazioni sociali, ma rimanda anche a un’idea di umanità dove i concetti di ‘proprietà’ e ‘consumo’ presentano significati inediti rispetto a ciò che noi siamo abituati a pensare. Tutto ciò non serve solo ai Pigmei per regolare la caccia, ma dovrebbe essere utile in termini generali per arricchire il dibattito intorno a tali concetti, mostrando altre possibilità di ‘consumo’, di ‘proprietà’, di ‘umanità’. Non è solo bizzarro sapere che alcuni individui si sentono veri uomini perché hanno catturato una preda ‘spartibile’, non è solo mercanzia che stupisce, ma è un’altra possibilità per pensare l’uomo, il mondo e le relazioni sociali” (56). Mentre nel terzo capitolo ricostruisce la storia del rapporto tra Pigmei ed europei, in quello successivo Allovio ritorna sulla questione della spartizione della preda per riflettere sull’invito rivolto dal genetista Luigi Cavalli-Sforza a ripensare l’antropologia culturale sulla base del modello di evoluzione culturale da lui proposto. Attraverso una minuziosa analisi delle tabelle elaborate dal genetista e relative alle competenze dichiarate da bambini, ragazzi e adulti pigmei aka in merito a specifiche attività, Allovio mostra come tali tabelle, se interrogate senza una profonda competenza del punto di vista indigeno, risultino completamente fuorvianti e conducano a conclusioni errate. L’esempio proposto è quello dell’abilità nella spartizione della carne di elefante, rispetto alla quale gli adulti risulterebbero meno competenti (solo l’80% dichiara di essere in grado di svolgere tale compito) se confrontati ai bambini e ai ragazzi (i quali sostengono la loro competenza nel 100% del campione). Scrive Allovio: “si immagini una carcassa di elefante di circa tre tonnellate e mezza di fronte alla quale otto adulti osservano stupefatti un bambino o una bambina di sette anni che divide l’animale in pezzi e attribuisce ogni parte a specifici parenti e individui del gruppo sociale […] Per spiegare quello che si ritiene possa essere successo nella raccolta dei dati occorre affidarsi alla tanto vituperata ricerca qualitativa, povera di modelli matematici, lontana dal fornire accurate rappresentazioni scientifiche degne della nobile tradizione razionalista occidentale ma, in certi casi, estremamente efficace per conoscere ‘come le cose stanno’” (111-112). Nell’ultimo capitolo l’autore ricostruisce tre importanti dibattiti che hanno coinvolto i Pigmei: la questione dell’opulenza originaria delle società di caccia e raccolta, la discussione tra tradizionalisti e “revisionisti” in merito alla possibilità di differenziare i Pigmei dai gruppi vicini con i quali intrecciano relazioni e scambi economici, il dibattito sull’indigenismo. Rispetto a quest’ultimo Allovio si chiede in che modo “l’antropologia contribuisc[a] all’esistenza dei Pigmei”; tra le possibili, molteplici risposte, l’autore ne predilige una: “essa dovrebbe perseverare nel riconoscere e valorizzare il contributo dei Pigmei - e più genericamente degli ‘altri’ – alla costituzione del repertorio polifonico della cultura umana; insinuare almeno il dubbio che, nel continuo processo di costituzione di tale repertorio, i Pigmei possano essere artefici e attori equivalenti al pari di altri protagonisti” (160).

NATALI C (2010). Pigmei, europei e altri selvaggi (RECENSIONE). ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA, 2, 308-309.

Pigmei, europei e altri selvaggi (RECENSIONE)

NATALI, CRISTIANA
2010

Abstract

Il volume di Stefano Allovio si apre con una suggestiva analogia tra alcuni abitanti della foresta e alcuni esponenti dell’accademia, i Pigmei e gli antropologi, accomunati dalla loro condizione di marginalità rispetto alle tradizioni intellettuali occidentali: i primi perché sembrerebbero non aver elaborato alcun prodotto culturale degno di essere ospitato nel patrimonio della cultura alta, i secondi perché parrebbero occuparsi di questioni bizzarre o esotiche che non possono interessare le discipline accademicamente più consolidate. Allovio si prefigge di mettere in discussione questi radicati luoghi comuni, mostrando da un lato l’eccellenza e la complessità della cultura dei Pigmei, e dall’altro sottolineando la necessità del sapere antropologico, del quale va valorizzata, tra l’altro, la capacità critica rispetto ad altri approcci disciplinari. Nel primo capitolo l’autore affronta il tema della valorizzazione della produzione artistica pigmea, proponendo una riflessione sul concetto di “non finito” che mette a confronto la scultura di Michelangelo e i dipinti su corteccia battuta dei Pigmei mbuti: “Il passaggio repentino da un motivo a un altro nel dipingere un pongo e il contrasto che così si viene a creare sono considerati criteri di eccellenza […] Benché l’effetto ottenuto possa far pensare a un’opera non ancora terminata, oppure abbandonata a metà per chissà quali motivi, il risultato è ancora una volta connesso alla lotta contro l’uniformità e consapevolmente le artiste mbuti sottolineano la non casualità di tali vuoti. I vuoti, affermano, valorizzano i pieni” (39-40). Il secondo capitolo del volume è dedicato a una delle pratiche più importanti nella cultura dei gruppi pigmei, la spartizione della preda, il cui valore non è “immediatamente riconoscibile nel mercato riconosciuto delle tradizioni intellettuali” (52): “essa è necessariamente connessa a una rappresentazione accurata e sofisticata delle relazioni sociali, ma rimanda anche a un’idea di umanità dove i concetti di ‘proprietà’ e ‘consumo’ presentano significati inediti rispetto a ciò che noi siamo abituati a pensare. Tutto ciò non serve solo ai Pigmei per regolare la caccia, ma dovrebbe essere utile in termini generali per arricchire il dibattito intorno a tali concetti, mostrando altre possibilità di ‘consumo’, di ‘proprietà’, di ‘umanità’. Non è solo bizzarro sapere che alcuni individui si sentono veri uomini perché hanno catturato una preda ‘spartibile’, non è solo mercanzia che stupisce, ma è un’altra possibilità per pensare l’uomo, il mondo e le relazioni sociali” (56). Mentre nel terzo capitolo ricostruisce la storia del rapporto tra Pigmei ed europei, in quello successivo Allovio ritorna sulla questione della spartizione della preda per riflettere sull’invito rivolto dal genetista Luigi Cavalli-Sforza a ripensare l’antropologia culturale sulla base del modello di evoluzione culturale da lui proposto. Attraverso una minuziosa analisi delle tabelle elaborate dal genetista e relative alle competenze dichiarate da bambini, ragazzi e adulti pigmei aka in merito a specifiche attività, Allovio mostra come tali tabelle, se interrogate senza una profonda competenza del punto di vista indigeno, risultino completamente fuorvianti e conducano a conclusioni errate. L’esempio proposto è quello dell’abilità nella spartizione della carne di elefante, rispetto alla quale gli adulti risulterebbero meno competenti (solo l’80% dichiara di essere in grado di svolgere tale compito) se confrontati ai bambini e ai ragazzi (i quali sostengono la loro competenza nel 100% del campione). Scrive Allovio: “si immagini una carcassa di elefante di circa tre tonnellate e mezza di fronte alla quale otto adulti osservano stupefatti un bambino o una bambina di sette anni che divide l’animale in pezzi e attribuisce ogni parte a specifici parenti e individui del gruppo sociale […] Per spiegare quello che si ritiene possa essere successo nella raccolta dei dati occorre affidarsi alla tanto vituperata ricerca qualitativa, povera di modelli matematici, lontana dal fornire accurate rappresentazioni scientifiche degne della nobile tradizione razionalista occidentale ma, in certi casi, estremamente efficace per conoscere ‘come le cose stanno’” (111-112). Nell’ultimo capitolo l’autore ricostruisce tre importanti dibattiti che hanno coinvolto i Pigmei: la questione dell’opulenza originaria delle società di caccia e raccolta, la discussione tra tradizionalisti e “revisionisti” in merito alla possibilità di differenziare i Pigmei dai gruppi vicini con i quali intrecciano relazioni e scambi economici, il dibattito sull’indigenismo. Rispetto a quest’ultimo Allovio si chiede in che modo “l’antropologia contribuisc[a] all’esistenza dei Pigmei”; tra le possibili, molteplici risposte, l’autore ne predilige una: “essa dovrebbe perseverare nel riconoscere e valorizzare il contributo dei Pigmei - e più genericamente degli ‘altri’ – alla costituzione del repertorio polifonico della cultura umana; insinuare almeno il dubbio che, nel continuo processo di costituzione di tale repertorio, i Pigmei possano essere artefici e attori equivalenti al pari di altri protagonisti” (160).
2010
NATALI C (2010). Pigmei, europei e altri selvaggi (RECENSIONE). ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA, 2, 308-309.
NATALI C
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