La storia della curtis di Guastalla non comincia con i Canossa: una lunga tradizione documentaria ci permette infatti di ricostruirne fin dalla metà del secolo IX le caratteristiche e le vicende. A metà del secolo IX, infatti, la curtis con la sua cappella dedicata a S. Pietro appartenevano ai beni del fisco regio e furono assegnate in piena proprietà dall’imperatore Ludovico II alla moglie, Engelberga, non solo sua sposa ma pure consors del regno, regina e imperatrice anch’essa, dunque. Engelberga nasceva da una delle famiglie di rango marchionale di maggiore rilievo del regno Italico, la parentela dei Supponidi, e gran parte della sua attività politica e patrimoniale si può meglio spiegare in base a tale appartenenza. Il larghissimo patrimonio che ricevette dal marito, siappure a pieno titolo proprietario, non fu però destinato dalla donna alle sue eredi dirette: provvide a dotare con parte di quei beni il monastero di S. Salvatore di Brescia e, soprattutto, a fondare con la parte restante un nuovo monastero femminile a Piacenza, il monastero dedicato ai Ss. Sisto e Fabiano. Fu tale monastero a ricevere nei decenni successivi le diverse conferme che re e imperatori emanavano per la detenzione delle terre del fisco: la corte di Guastalla, nominalmente sempre confermata a S. Sisto, per la sua posizione strategica lungo il corso del Po fu contesa al monastero dalla chiesa di Reggio Emilia e, dalla prima metà del secolo XI in poi, fu certamente nelle mani dei Canossa. Matilde un paio di anni prima del concilio di Guastalla aveva già ceduto alle monache di S. Sisto di Piacenza la curtis e il castrum che era lì sorto, preoccupandosi così, negli ultimi anni della sua vita, di restituire i beni fiscali di cui aveva il controllo a quegli enti religiosi che tradizionalmente ne avevano garantito la tutela e la conservazione, cercando di sottrarne la proprietà e la gestione ai vescovi e quindi alle società urbane che in loro si riconoscevano. Una scelta tradizionalista e conservatrice quella di Matilde, volta a tutelare l’integrità dei beni fiscali e il loro controllo da parte dell’autorità regia: una scelta che però si infranse davanti alla matura realtà politica dei nuovi poteri, soprattutto quelli delle città, in via di piena definizione e affermazione.
T. Lazzari (2007). Matilde e Guastalla. ALESSANDRIA : Edizioni Dell'Orso.
Matilde e Guastalla
LAZZARI, TIZIANA
2007
Abstract
La storia della curtis di Guastalla non comincia con i Canossa: una lunga tradizione documentaria ci permette infatti di ricostruirne fin dalla metà del secolo IX le caratteristiche e le vicende. A metà del secolo IX, infatti, la curtis con la sua cappella dedicata a S. Pietro appartenevano ai beni del fisco regio e furono assegnate in piena proprietà dall’imperatore Ludovico II alla moglie, Engelberga, non solo sua sposa ma pure consors del regno, regina e imperatrice anch’essa, dunque. Engelberga nasceva da una delle famiglie di rango marchionale di maggiore rilievo del regno Italico, la parentela dei Supponidi, e gran parte della sua attività politica e patrimoniale si può meglio spiegare in base a tale appartenenza. Il larghissimo patrimonio che ricevette dal marito, siappure a pieno titolo proprietario, non fu però destinato dalla donna alle sue eredi dirette: provvide a dotare con parte di quei beni il monastero di S. Salvatore di Brescia e, soprattutto, a fondare con la parte restante un nuovo monastero femminile a Piacenza, il monastero dedicato ai Ss. Sisto e Fabiano. Fu tale monastero a ricevere nei decenni successivi le diverse conferme che re e imperatori emanavano per la detenzione delle terre del fisco: la corte di Guastalla, nominalmente sempre confermata a S. Sisto, per la sua posizione strategica lungo il corso del Po fu contesa al monastero dalla chiesa di Reggio Emilia e, dalla prima metà del secolo XI in poi, fu certamente nelle mani dei Canossa. Matilde un paio di anni prima del concilio di Guastalla aveva già ceduto alle monache di S. Sisto di Piacenza la curtis e il castrum che era lì sorto, preoccupandosi così, negli ultimi anni della sua vita, di restituire i beni fiscali di cui aveva il controllo a quegli enti religiosi che tradizionalmente ne avevano garantito la tutela e la conservazione, cercando di sottrarne la proprietà e la gestione ai vescovi e quindi alle società urbane che in loro si riconoscevano. Una scelta tradizionalista e conservatrice quella di Matilde, volta a tutelare l’integrità dei beni fiscali e il loro controllo da parte dell’autorità regia: una scelta che però si infranse davanti alla matura realtà politica dei nuovi poteri, soprattutto quelli delle città, in via di piena definizione e affermazione.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.