Dopo un preliminare inquadramento storico-ecclesiologico del collegio patriarcale, il contributo si propone di considerare le relazioni della prima di queste sedi patriarcali, Roma, con le altre, nel corso del primo millennio. Nello specifico si è trattato di rilevare in quale misura la primazialità romana sia stata proposta e recepita nell’effettiva prassi delle relazioni ecclesiastiche sino alla formalizzazione dello scisma tra le due Chiese, greca e latina. In questo contesto la rilevanza assunta dal rapporto tra le due Rome (che è anche il più documentato) ha condizionato quello di Roma con le restanti tre sedi patriarcali dell’oriente afro-asiatico. La difesa ad oltranza, in chiave anticostantinopolitana, del quadro giurisdizionale niceno ha portato Roma a negare anche a Gerusalemme, oltre che a Costantinopoli, la dignità patriarcale, sulla base della dottrina ecclesiologica romana della triarchia petrina. A sua volta, l’asse politico-ecclesiale di Roma con le altre due sedi petrine orientali ha sempre rivelato una costante fluttuazione, con un alterna variabilità determinata dalle emergenze dottrinali del momento. Le trattative attinenti alla soluzione dello “scisma acaciano”, all’inizio del VI secolo, evidenziano il requisito romano della comunione con la sede apostolica come precisa condizione per l’appartenenza di una Chiesa locale alla Chiesa universale, mentre la sede costantinopolitana, presupponendo una condivisione con Roma dell’apostolicità petrina, insisteva sull’unità gemellare delle due Chiese. Al momento dei concili costantinopolitani del 553 e del 680 emerge la rivendicazione di un’altra prerogativa romana: la facoltà di decidere autonomamente ed autoritativamente sulle questioni di fede, invalidando anticipatamente ogni diversa delibera eventualmente assunta in sede di concilio ecumenico. Per Costantinopoli invece è l’adesione alla fede formulata in sede conciliare a costituire il criterio di appartenenza alla Chiesa universale. Nel frattempo il titolo di patriarca ecumenico, ormai tradizionale per l’arcivescovo di Costantinopoli, veniva interpretato a Roma – come mostra la sua contestazione gregoriana – come la rivendicazione di una singularitas episcopale e di una indefettibilità dogmatica pertinente semmai di diritto alla sola sede romana. Vengono al riguardo formulate, nel testo, le proposte di più attendibili significati – rispetto alla lettura romana –, impliciti nell’assunzione di questo titolo da parte dei vescovi della Nuova Roma. La distonia ecclesiologica tra le due Rome emerge anche nel momento di concordia dottrinale del 787, nella comune proclamazione dell’ortodossia della venerazione delle immagini sacre: ciò avviene nella riproposizione della comunione romana come criterio di appartenenza alla Chiesa e della propria inerranza dottrinale, che vincolava il concilio all’accettazione dei pronunciamenti romani – effettuati però sempre in chiave sinodale –, alla quale si aggiunsero ulteriori contrasti sulla facoltà di convocazione del concilio e sul diritto di presiederlo, che per l’oriente costantinopolitano erano esclusive competenze imperiali. Con lo “scisma di Fozio”, quando si assiste in Oriente alla proliferazione dell’istituto conciliare, si ripropongono tutte le tensioni ecclesiologiche che già in precedenza avevano turbato le relazioni tra le due Rome. In questo frangente – nel quale la questione non era dottrinale, bensì canonico-disciplinare – Roma aggiunse alla tradizionali rivendicazioni la prerogativa di tribunale supremo e definitivo per le questioni di legittimità episcopale, estendendola al titolare della gemella sede costantinopolitana. Da parte sua, la Chiesa costantinopolitana, che nel suo complesso si atteneva strettamente alla normativa di Sardica, rivela, sul piano ecclesiologico, una bipolarità, ora attenendosi alla fedeltà alla collegialità pentarchica (concilio dell’869-870), ora enfatizzando la primazialità costantinopolitana, in coppia con Roma (concilio dell’897-880). Nel frattempo la divaricazione ecclesiologica tra le due Chiese aveva avuto una ratifica sul piano normativo: da parte romana nelle cosiddette Decretali pseudo-isidoriane – che avevano esteso a tutti i vescovi le prerogative esercitate in precedenza dal papa sui vescovi della propria giurisdizione metropolitana – e da parte costantinopolitana nella Eisagogé, attribuita a Fozio, che aveva inteso ridimensionare le prerogative delle tre sedi apostoliche del vicino Oriente. Questo processo di reciproca “centralizzazione” risulta ulteriormente accentuato in occasione dello scontro del 1054 tra Roma e Costantinopoli. Da un lato infatti abbiamo il movimento transalpino, o pre-gregoriano, impersonato dai papi provenienti dalla Reichkirke, che considerava l’arcivescovo di Costantinopoli sottoposto alla giurisdizione romana come un qualsiasi vescovo dell’Occidente, e dall’altro il patriarca ecumenico Michele Cerulario, che concepiva, accanto ad una inusitata pretesa superiorità del potere sacerdotale su quello regale, un rapporto paritario tra le due Rome, che presupponeva una loro diarchia di governo nella Chiesa universale e il conseguente ridimensionamento della altre tre sedi patriarcali dell’Oriente. Non è certo un caso se, nel suo tentativo di mediazione tra Roma e Costantinopoli, il patriarca Pietro III di Antiochia si rivela l’ultimo e più compiuto teorico della Pentarchia dei patriarchi.

« La vista e gli altri sensi ». Roma e le altre sedi patriarcali d’Oriente sino alla metà dell’XI secolo / E. Morini. - STAMPA. - (2014), pp. 712-806. (Intervento presentato al convegno CHIESE LOCALI E CHIESE REGIONALI NELL’ALTO MEDIOEVO tenutosi a Spoleto nel 4-9 aprile 2013).

« La vista e gli altri sensi ». Roma e le altre sedi patriarcali d’Oriente sino alla metà dell’XI secolo

MORINI, ENRICO
2014

Abstract

Dopo un preliminare inquadramento storico-ecclesiologico del collegio patriarcale, il contributo si propone di considerare le relazioni della prima di queste sedi patriarcali, Roma, con le altre, nel corso del primo millennio. Nello specifico si è trattato di rilevare in quale misura la primazialità romana sia stata proposta e recepita nell’effettiva prassi delle relazioni ecclesiastiche sino alla formalizzazione dello scisma tra le due Chiese, greca e latina. In questo contesto la rilevanza assunta dal rapporto tra le due Rome (che è anche il più documentato) ha condizionato quello di Roma con le restanti tre sedi patriarcali dell’oriente afro-asiatico. La difesa ad oltranza, in chiave anticostantinopolitana, del quadro giurisdizionale niceno ha portato Roma a negare anche a Gerusalemme, oltre che a Costantinopoli, la dignità patriarcale, sulla base della dottrina ecclesiologica romana della triarchia petrina. A sua volta, l’asse politico-ecclesiale di Roma con le altre due sedi petrine orientali ha sempre rivelato una costante fluttuazione, con un alterna variabilità determinata dalle emergenze dottrinali del momento. Le trattative attinenti alla soluzione dello “scisma acaciano”, all’inizio del VI secolo, evidenziano il requisito romano della comunione con la sede apostolica come precisa condizione per l’appartenenza di una Chiesa locale alla Chiesa universale, mentre la sede costantinopolitana, presupponendo una condivisione con Roma dell’apostolicità petrina, insisteva sull’unità gemellare delle due Chiese. Al momento dei concili costantinopolitani del 553 e del 680 emerge la rivendicazione di un’altra prerogativa romana: la facoltà di decidere autonomamente ed autoritativamente sulle questioni di fede, invalidando anticipatamente ogni diversa delibera eventualmente assunta in sede di concilio ecumenico. Per Costantinopoli invece è l’adesione alla fede formulata in sede conciliare a costituire il criterio di appartenenza alla Chiesa universale. Nel frattempo il titolo di patriarca ecumenico, ormai tradizionale per l’arcivescovo di Costantinopoli, veniva interpretato a Roma – come mostra la sua contestazione gregoriana – come la rivendicazione di una singularitas episcopale e di una indefettibilità dogmatica pertinente semmai di diritto alla sola sede romana. Vengono al riguardo formulate, nel testo, le proposte di più attendibili significati – rispetto alla lettura romana –, impliciti nell’assunzione di questo titolo da parte dei vescovi della Nuova Roma. La distonia ecclesiologica tra le due Rome emerge anche nel momento di concordia dottrinale del 787, nella comune proclamazione dell’ortodossia della venerazione delle immagini sacre: ciò avviene nella riproposizione della comunione romana come criterio di appartenenza alla Chiesa e della propria inerranza dottrinale, che vincolava il concilio all’accettazione dei pronunciamenti romani – effettuati però sempre in chiave sinodale –, alla quale si aggiunsero ulteriori contrasti sulla facoltà di convocazione del concilio e sul diritto di presiederlo, che per l’oriente costantinopolitano erano esclusive competenze imperiali. Con lo “scisma di Fozio”, quando si assiste in Oriente alla proliferazione dell’istituto conciliare, si ripropongono tutte le tensioni ecclesiologiche che già in precedenza avevano turbato le relazioni tra le due Rome. In questo frangente – nel quale la questione non era dottrinale, bensì canonico-disciplinare – Roma aggiunse alla tradizionali rivendicazioni la prerogativa di tribunale supremo e definitivo per le questioni di legittimità episcopale, estendendola al titolare della gemella sede costantinopolitana. Da parte sua, la Chiesa costantinopolitana, che nel suo complesso si atteneva strettamente alla normativa di Sardica, rivela, sul piano ecclesiologico, una bipolarità, ora attenendosi alla fedeltà alla collegialità pentarchica (concilio dell’869-870), ora enfatizzando la primazialità costantinopolitana, in coppia con Roma (concilio dell’897-880). Nel frattempo la divaricazione ecclesiologica tra le due Chiese aveva avuto una ratifica sul piano normativo: da parte romana nelle cosiddette Decretali pseudo-isidoriane – che avevano esteso a tutti i vescovi le prerogative esercitate in precedenza dal papa sui vescovi della propria giurisdizione metropolitana – e da parte costantinopolitana nella Eisagogé, attribuita a Fozio, che aveva inteso ridimensionare le prerogative delle tre sedi apostoliche del vicino Oriente. Questo processo di reciproca “centralizzazione” risulta ulteriormente accentuato in occasione dello scontro del 1054 tra Roma e Costantinopoli. Da un lato infatti abbiamo il movimento transalpino, o pre-gregoriano, impersonato dai papi provenienti dalla Reichkirke, che considerava l’arcivescovo di Costantinopoli sottoposto alla giurisdizione romana come un qualsiasi vescovo dell’Occidente, e dall’altro il patriarca ecumenico Michele Cerulario, che concepiva, accanto ad una inusitata pretesa superiorità del potere sacerdotale su quello regale, un rapporto paritario tra le due Rome, che presupponeva una loro diarchia di governo nella Chiesa universale e il conseguente ridimensionamento della altre tre sedi patriarcali dell’Oriente. Non è certo un caso se, nel suo tentativo di mediazione tra Roma e Costantinopoli, il patriarca Pietro III di Antiochia si rivela l’ultimo e più compiuto teorico della Pentarchia dei patriarchi.
2014
CHIESE LOCALI E CHIESE REGIONALI NELL’ALTO MEDIOEVO
712
806
« La vista e gli altri sensi ». Roma e le altre sedi patriarcali d’Oriente sino alla metà dell’XI secolo / E. Morini. - STAMPA. - (2014), pp. 712-806. (Intervento presentato al convegno CHIESE LOCALI E CHIESE REGIONALI NELL’ALTO MEDIOEVO tenutosi a Spoleto nel 4-9 aprile 2013).
E. Morini
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