Sul filo di una minuziosa ricostruzione della sua biografia, l’articolo propone un’approfondita ricognizione storico-critica del percorso artistico, intellettuale e politico di Massimo Castri, attenta a delineare i diversi profili del versatile maestro toscano: attore promettente presto convertitosi alla regia e perpetuamente tentato dal demone della scrittura per la scena; autorevole maestro di attori; solido uomo di istituzioni – a dispetto del suo piglio avanguardista – fermamente deciso ad ergersi a coscienza critica del sistema dei teatri pubblici nazionali; eterodosso e acutissimo studioso dell’esperienza scenica occidentale, a tratti financo tentato dalla possibilità della carriera accademica. Attraverso lo studio dei suoi spettacoli principali, dalle grandi messe in scena pirandelliane degli esordi – «Vestire gli ignudi», 1976; «La vita che ti diedi», 1978; «Così è (se vi pare)», 1979 – giù, giù fino all’inatteso incontro con lo Ionesco de «La cantatrice calva» (2011), il teatro di Castri è indagato nei suoi oscuri commerci con la psicoanalisi (matrice generativa della sua originale poetica del “sottotesto” e preziosa mappa per orientare le sue eterodosse esplorazioni degli immaginari testuali), così come nella sua fortissima vocazione politica: una pulsione prepotente che ha nella nozione di «realismo prospettico» la sua chiave di volta. Ponendosi come originale rideclinazione del modello dello straniamento brechtiano, l’aberrazione mimetica perseguita da Castri con le sue regie antinaturalistiche è infatti lo strumento ideale per attuare una compensazione tra le tensioni ideologiche proprie all’appassionato engagement del regista e la sua maniacale attenzione per la forma. Nel solco di quest’analisi, metodologicamente fondata su di una stretta adesione alla materialità dell’esperienza teatrale, il fondamentale apporto dato da Castri allo sviluppo del linguaggio della mise en scène italiana viene identificato nella sua capacità di rimettere in discussione la nozione “classica” – e politicamente “ortodossa” – di regia critica, attraverso la codificazione di una prassi di messa in scena composita che per un verso, raccogliendo l’eredità dello “spettacolo per accostamento” di ascendenza pandolfiana, punta a far coincidere la regia con una sorta di funzione “superattorica”, per l’alto tende invece a sciogliere l’idea di regia nella pratica della sperimentazione drammaturgica. Fra le pieghe del saggio esce un icastico ritratto della società teatrale italiana del secondo novecento, figlia tutto sommato della scena del Ventennio, e un curioso studio per campioni sull’evoluzione della drammaturgia borghese, dai prodromi euripidei agli approdi estremi ibseniani e pirandelliani, passando attraverso l’indagine dei più neri risvolti degli intrecci goldoniani.

C. Longhi (2013). «Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni). DIONYSUS EX MACHINA, 4, 343-387.

«Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni)

LONGHI, CLAUDIO
2013

Abstract

Sul filo di una minuziosa ricostruzione della sua biografia, l’articolo propone un’approfondita ricognizione storico-critica del percorso artistico, intellettuale e politico di Massimo Castri, attenta a delineare i diversi profili del versatile maestro toscano: attore promettente presto convertitosi alla regia e perpetuamente tentato dal demone della scrittura per la scena; autorevole maestro di attori; solido uomo di istituzioni – a dispetto del suo piglio avanguardista – fermamente deciso ad ergersi a coscienza critica del sistema dei teatri pubblici nazionali; eterodosso e acutissimo studioso dell’esperienza scenica occidentale, a tratti financo tentato dalla possibilità della carriera accademica. Attraverso lo studio dei suoi spettacoli principali, dalle grandi messe in scena pirandelliane degli esordi – «Vestire gli ignudi», 1976; «La vita che ti diedi», 1978; «Così è (se vi pare)», 1979 – giù, giù fino all’inatteso incontro con lo Ionesco de «La cantatrice calva» (2011), il teatro di Castri è indagato nei suoi oscuri commerci con la psicoanalisi (matrice generativa della sua originale poetica del “sottotesto” e preziosa mappa per orientare le sue eterodosse esplorazioni degli immaginari testuali), così come nella sua fortissima vocazione politica: una pulsione prepotente che ha nella nozione di «realismo prospettico» la sua chiave di volta. Ponendosi come originale rideclinazione del modello dello straniamento brechtiano, l’aberrazione mimetica perseguita da Castri con le sue regie antinaturalistiche è infatti lo strumento ideale per attuare una compensazione tra le tensioni ideologiche proprie all’appassionato engagement del regista e la sua maniacale attenzione per la forma. Nel solco di quest’analisi, metodologicamente fondata su di una stretta adesione alla materialità dell’esperienza teatrale, il fondamentale apporto dato da Castri allo sviluppo del linguaggio della mise en scène italiana viene identificato nella sua capacità di rimettere in discussione la nozione “classica” – e politicamente “ortodossa” – di regia critica, attraverso la codificazione di una prassi di messa in scena composita che per un verso, raccogliendo l’eredità dello “spettacolo per accostamento” di ascendenza pandolfiana, punta a far coincidere la regia con una sorta di funzione “superattorica”, per l’alto tende invece a sciogliere l’idea di regia nella pratica della sperimentazione drammaturgica. Fra le pieghe del saggio esce un icastico ritratto della società teatrale italiana del secondo novecento, figlia tutto sommato della scena del Ventennio, e un curioso studio per campioni sull’evoluzione della drammaturgia borghese, dai prodromi euripidei agli approdi estremi ibseniani e pirandelliani, passando attraverso l’indagine dei più neri risvolti degli intrecci goldoniani.
2013
C. Longhi (2013). «Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni). DIONYSUS EX MACHINA, 4, 343-387.
C. Longhi
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/303945
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