Il saggio si propone di analizzare l’influenza che la pulsione autobiografica ha avuto sull’evoluzione della poetica scenica del regista/drammaturgo Lagarce, analizzandola sia sul fronte dell’incidenza che tale pulsione ha avuto sull’evoluzione della scrittura per la scena dell’autore che su quello del condizionamento imposto alla sua prassi registica dal bisogno di raccontarsi. Indagando i sottili intrecci che negli anni vengono ad annodarsi tra la creazione lagarciana e la sua privata esistenza umana emerge “crudelmente” che, col passare del tempo, sempre più chiaramente l’autore coglie nella morte la chiave di volta per ogni costruzione autobiografica. Nel segno di un heideggeriano “essere per la morte” ecco così delinearsi nel corpus scenico/biografico lagarciano una sorta di trittico esistenzialista, matrice o emblema della poetica dello scrittore/teatrante, racchiuso tra la messa in scena del “Malato immaginario” firmata dal giovane regista nel 1993, il distico drammaturgico “Juste la fin du monde” (1990)/“Le pays lointain” (1995) e, naturalmente il “Journal” cui Lagarce attende fin quasi alla sua morte. E proprio l’intima e incessante conversazione con la morte intrecciata quotidianamente sul palcoscenico da Lagarce nel corso dei suoi ultimi anni di vita rivela al regista la via per sottrarsi alle tentazioni evasive della cultura postmoderna, ritrovando una letteralmente postrema possibilità di engagement.
La tentazione del «Portrait», ovvero la scena della memoria secondo Lagarce
LONGHI, CLAUDIO
2013
Abstract
Il saggio si propone di analizzare l’influenza che la pulsione autobiografica ha avuto sull’evoluzione della poetica scenica del regista/drammaturgo Lagarce, analizzandola sia sul fronte dell’incidenza che tale pulsione ha avuto sull’evoluzione della scrittura per la scena dell’autore che su quello del condizionamento imposto alla sua prassi registica dal bisogno di raccontarsi. Indagando i sottili intrecci che negli anni vengono ad annodarsi tra la creazione lagarciana e la sua privata esistenza umana emerge “crudelmente” che, col passare del tempo, sempre più chiaramente l’autore coglie nella morte la chiave di volta per ogni costruzione autobiografica. Nel segno di un heideggeriano “essere per la morte” ecco così delinearsi nel corpus scenico/biografico lagarciano una sorta di trittico esistenzialista, matrice o emblema della poetica dello scrittore/teatrante, racchiuso tra la messa in scena del “Malato immaginario” firmata dal giovane regista nel 1993, il distico drammaturgico “Juste la fin du monde” (1990)/“Le pays lointain” (1995) e, naturalmente il “Journal” cui Lagarce attende fin quasi alla sua morte. E proprio l’intima e incessante conversazione con la morte intrecciata quotidianamente sul palcoscenico da Lagarce nel corso dei suoi ultimi anni di vita rivela al regista la via per sottrarsi alle tentazioni evasive della cultura postmoderna, ritrovando una letteralmente postrema possibilità di engagement.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.