Nel 1906 Nagai Kafū, come funzionario della banca per la quale lavorava in America, riesce finalmente a raggiungere l’obiettivo, da sempre inseguito, di approdare in Francia, presso una filiale di Lione. Il Furansu monogatari, di cui fa parte Kumo, è una silloge di racconti e di impressioni del suo soggiorno francese. In termini più specificatamente narratologici, l’effetto straniante suscitato dal racconto è conseguito attraverso l’alternanza tra i diversi gradi di focalizzazione del punto di vista, che oscilla tra la focalizzazione zero del narratore onnisciente eterodiegetico, il quale osserva e descrive dall’esterno il protagonista in terza persona, e la focalizzazione interna, tendenzialmente prevalente, che si esprime nell’uso della prima persona da parte del protagonista nel suo soliloquio molto vicino al monologo interiore. A questa voce interiore sono affidate in particolar modo le digressioni temporali provocate dai ricordi, come la lunga parentesi rimemorativa dell’esperienza americana che sfocia addirittura in un sogno. Ciò avviene, tra l’altro - conformemente ad alcune convenzioni specifiche della narrativa giapponese - senza che i passaggi tra i due livelli di focalizzazione siano minimamente mediati da parte dello scrittore, bensì attraverso giustapposizioni talmente ardite che, in sede di traduzione, si è preferito, per evitare possibili stonature, mantenere la terza persona anche per il soliloquio del protagonista, adottando la tecnica del racconto trasposto nella forma tipica del discorso indiretto libero. Si ha come l’impressione che narratore e protagonista coincidano, ma fuori dal racconto, come se il protagonista fosse uscito dalla storia e stesse raccontando ciò che ha vissuto. Ma, in realtà, sappiamo che è accaduto proprio il contrario: è l’autore che, attraverso una precisa scelta stilistica, ha travestito se stesso e la propria diretta esperienza autobiografica - di cui il racconto sembra la schietta testimonianza - calandosi nei panni di un personaggio che gli consente di sottrarsi alla narrazione in prima persona. Ciò permette all’autore di produrre improvvisi e continui effetti di straniamento, di assecondare un ritmo discontinuo, ondivago e ambiguo, che, riattualizzando il genere zuihitsu, l’autore stesso ha voluto esplicitamente teorizzare, assumendo che il ritmo della narrazione deve assomigliare a quello di una oziosa chiacchierata di tutti i giorni, ove il dipanamento del discorso non appare condizionato da un ordine preesistente. Tutto ciò è evidentemente funzionale alla natura del personaggio messo in scena, inchiodato fin dall’inizio a una fondamentale condizione di impotenza e di scacco che lo fa assomigliare anche a tanti personaggi della letteratura moderna occidentale. Già l’incrocio presso il quale Teikichi, il protagonista, si ferma per decidere quale strada prendere, all’inizio del racconto, sembra materializzare, nella sua meccanica alternativa di direzioni opposte a cui corrispondono opposte possibilità di trascorrere la serata, una sorta di sostanziale equivalenza di ogni possibile percorso, cioè di ogni possibile scelta. Il racconto non è altro, in definitiva, che la progressiva delucidazione di questa condizione di impotenza e di scacco che si manifesta nella costante impossibilità per il protagonista di compiere delle scelte anche elementari, e che si risolve metaforicamente in un lasciarsi andare nel labirinto urbano sotto la spinta di circostanze occasionali. In questa odissea notturna, anche il passato si rivela per quello che è stato: il continuo tentativo mancato di sottrarsi al proprio destino e alle proprie responsabilità sociali, come se anche l’estrema ribellione al buon senso borghese, che Teikichi mostra di disprezzare nei suoi ipocriti connazionali residenti all’estero, si rivelasse alla fine inutile e impraticabile. Il resoconto dell’esperienza americana lascia infatti intuire che questa ribellione sarebbe potuta sfociare in un paradossale abbandono della carica pubblica a favore di un vero e proprio ingresso nel mondo della prostituzione come protettore della donna che aveva frequentato, se tale progetto, balenato a tratti nella mente del protagonista, non si fosse fatalmente dissolto per la sua intrinseca insensatezza. Fallimentare si rivelerà ovviamente il tentativo di trasformare in una relazione stabile l’incontro occasionale con una prostituta della Parigi notturna, perché già in partenza la scelta di entrare in rapporto con una prostituta rappresenta in realtà una non scelta, una via di fuga da ogni impegno responsabile nei confronti dell’alterità femminile. L’istinto di morte che si nasconde nel profondo dell’animo di Teikichi si rivelerà nella grandiosa scena finale del suicidio mancato. Questa scena è sapientemente orchestrata sul doppio registro di una linea interiore di pensieri che ruotano intorno al suicidio e la percezione esterna di una vita quotidiana brulicante nella distesa di una grande prospettiva suburbana, simile a quella di un quadro impressionista. La realtà fenomenica, con la sua stessa irriducibile corposità (colori, suoni, volti, espressioni, oggetti), finisce per sgretolare l’idea del suicidio dissolvendone l’aura tragico-eroica: il protagonista visualizza improvvisamente il suo gesto trasfigurato in una notizia curiosa, ridicola, da dare in pasto ai lettori delle gazzette popolari giapponesi, ricevendone la conferma definitiva dell’impossibilità di portare a termine qualunque scelta o decisione. Così perfino il cupio dissolvi dei pensieri di morte finisce per dissolversi esso stesso in un sorriso amaro e scettico, sulla sponda di un flusso di eventi quotidiani osservati con crescente distacco.

"Nuvole" di Nagai Kafū;

RICCA, LAURA
2004

Abstract

Nel 1906 Nagai Kafū, come funzionario della banca per la quale lavorava in America, riesce finalmente a raggiungere l’obiettivo, da sempre inseguito, di approdare in Francia, presso una filiale di Lione. Il Furansu monogatari, di cui fa parte Kumo, è una silloge di racconti e di impressioni del suo soggiorno francese. In termini più specificatamente narratologici, l’effetto straniante suscitato dal racconto è conseguito attraverso l’alternanza tra i diversi gradi di focalizzazione del punto di vista, che oscilla tra la focalizzazione zero del narratore onnisciente eterodiegetico, il quale osserva e descrive dall’esterno il protagonista in terza persona, e la focalizzazione interna, tendenzialmente prevalente, che si esprime nell’uso della prima persona da parte del protagonista nel suo soliloquio molto vicino al monologo interiore. A questa voce interiore sono affidate in particolar modo le digressioni temporali provocate dai ricordi, come la lunga parentesi rimemorativa dell’esperienza americana che sfocia addirittura in un sogno. Ciò avviene, tra l’altro - conformemente ad alcune convenzioni specifiche della narrativa giapponese - senza che i passaggi tra i due livelli di focalizzazione siano minimamente mediati da parte dello scrittore, bensì attraverso giustapposizioni talmente ardite che, in sede di traduzione, si è preferito, per evitare possibili stonature, mantenere la terza persona anche per il soliloquio del protagonista, adottando la tecnica del racconto trasposto nella forma tipica del discorso indiretto libero. Si ha come l’impressione che narratore e protagonista coincidano, ma fuori dal racconto, come se il protagonista fosse uscito dalla storia e stesse raccontando ciò che ha vissuto. Ma, in realtà, sappiamo che è accaduto proprio il contrario: è l’autore che, attraverso una precisa scelta stilistica, ha travestito se stesso e la propria diretta esperienza autobiografica - di cui il racconto sembra la schietta testimonianza - calandosi nei panni di un personaggio che gli consente di sottrarsi alla narrazione in prima persona. Ciò permette all’autore di produrre improvvisi e continui effetti di straniamento, di assecondare un ritmo discontinuo, ondivago e ambiguo, che, riattualizzando il genere zuihitsu, l’autore stesso ha voluto esplicitamente teorizzare, assumendo che il ritmo della narrazione deve assomigliare a quello di una oziosa chiacchierata di tutti i giorni, ove il dipanamento del discorso non appare condizionato da un ordine preesistente. Tutto ciò è evidentemente funzionale alla natura del personaggio messo in scena, inchiodato fin dall’inizio a una fondamentale condizione di impotenza e di scacco che lo fa assomigliare anche a tanti personaggi della letteratura moderna occidentale. Già l’incrocio presso il quale Teikichi, il protagonista, si ferma per decidere quale strada prendere, all’inizio del racconto, sembra materializzare, nella sua meccanica alternativa di direzioni opposte a cui corrispondono opposte possibilità di trascorrere la serata, una sorta di sostanziale equivalenza di ogni possibile percorso, cioè di ogni possibile scelta. Il racconto non è altro, in definitiva, che la progressiva delucidazione di questa condizione di impotenza e di scacco che si manifesta nella costante impossibilità per il protagonista di compiere delle scelte anche elementari, e che si risolve metaforicamente in un lasciarsi andare nel labirinto urbano sotto la spinta di circostanze occasionali. In questa odissea notturna, anche il passato si rivela per quello che è stato: il continuo tentativo mancato di sottrarsi al proprio destino e alle proprie responsabilità sociali, come se anche l’estrema ribellione al buon senso borghese, che Teikichi mostra di disprezzare nei suoi ipocriti connazionali residenti all’estero, si rivelasse alla fine inutile e impraticabile. Il resoconto dell’esperienza americana lascia infatti intuire che questa ribellione sarebbe potuta sfociare in un paradossale abbandono della carica pubblica a favore di un vero e proprio ingresso nel mondo della prostituzione come protettore della donna che aveva frequentato, se tale progetto, balenato a tratti nella mente del protagonista, non si fosse fatalmente dissolto per la sua intrinseca insensatezza. Fallimentare si rivelerà ovviamente il tentativo di trasformare in una relazione stabile l’incontro occasionale con una prostituta della Parigi notturna, perché già in partenza la scelta di entrare in rapporto con una prostituta rappresenta in realtà una non scelta, una via di fuga da ogni impegno responsabile nei confronti dell’alterità femminile. L’istinto di morte che si nasconde nel profondo dell’animo di Teikichi si rivelerà nella grandiosa scena finale del suicidio mancato. Questa scena è sapientemente orchestrata sul doppio registro di una linea interiore di pensieri che ruotano intorno al suicidio e la percezione esterna di una vita quotidiana brulicante nella distesa di una grande prospettiva suburbana, simile a quella di un quadro impressionista. La realtà fenomenica, con la sua stessa irriducibile corposità (colori, suoni, volti, espressioni, oggetti), finisce per sgretolare l’idea del suicidio dissolvendone l’aura tragico-eroica: il protagonista visualizza improvvisamente il suo gesto trasfigurato in una notizia curiosa, ridicola, da dare in pasto ai lettori delle gazzette popolari giapponesi, ricevendone la conferma definitiva dell’impossibilità di portare a termine qualunque scelta o decisione. Così perfino il cupio dissolvi dei pensieri di morte finisce per dissolversi esso stesso in un sorriso amaro e scettico, sulla sponda di un flusso di eventi quotidiani osservati con crescente distacco.
2004
Nagai Kafū
雲 (Nuvole)
L. Ricca
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