Alla fine del secolo XVII l’uso del carbon fossile era per lo più limitato al riscaldamento domestico e ad alcune piccole industrie, mentre per altri impieghi ci si rivolgeva soprattutto al carbone di legna. Lo sviluppo dell’industria mineraria era frenato da rischi connessi all’estrazionee e l’industria metallurgica rifiutava il carbon fossile perché i componenti volatili deterioravano i prodotti. Il carbone era un prodotto della natura quasi indegno di considerazione, anzi un po’ disprezzato. La memoria “Sul carbone” del gesuita cileno Gioan-Ignazio Molina (Talca, Cile 1740 – Bologna, 1829), letta all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna e pubblicata nel 1821 lo mette in chiaro fin dall’inizio. Si apre infatti ricordando che il carbone (in generale) è “un oggetto il più deforme, il più avvilente, e il più disprezzato fra tutti quelli, che si presentano alla nostra vista”. Ciononostante, come lo stesso Molina ci teneva a specificare subito dopo, la Natura si serviva del carbone per quasi tutte le sue operazioni, anche le più sorprendenti, come la formazione del diamante. Ma che cos’era il carbone per Molina? Con lo stile proprio del tempo, lo definiva “il residuo postumo di qualunque vegetabile, che sia stato bruciato, o per arte o per qualche altra combinazione accidentale”. Questo lavoro si propone di illustrare i contenuti di quella memoria, dopo aver presentato un profilo dell'A., naturalista del secolo dei Lumi esule in Italia, dove pubblicò il "Saggio sulla storia naturale del Chili” (1782) e il "Saggio sulla Storia Civile del Chili " (1787) , che rimangono le sue opere più famose.
M. Taddia (2012). Quando il carbone diventò una risorsa – Una memoria dell’Abate Molina (1740-1829). LA RIVISTA DEI COMBUSTIBILI E DELL'INDUSTRIA CHIMICA, 66(4), 28-34.
Quando il carbone diventò una risorsa – Una memoria dell’Abate Molina (1740-1829)
TADDIA, MARCO
2012
Abstract
Alla fine del secolo XVII l’uso del carbon fossile era per lo più limitato al riscaldamento domestico e ad alcune piccole industrie, mentre per altri impieghi ci si rivolgeva soprattutto al carbone di legna. Lo sviluppo dell’industria mineraria era frenato da rischi connessi all’estrazionee e l’industria metallurgica rifiutava il carbon fossile perché i componenti volatili deterioravano i prodotti. Il carbone era un prodotto della natura quasi indegno di considerazione, anzi un po’ disprezzato. La memoria “Sul carbone” del gesuita cileno Gioan-Ignazio Molina (Talca, Cile 1740 – Bologna, 1829), letta all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna e pubblicata nel 1821 lo mette in chiaro fin dall’inizio. Si apre infatti ricordando che il carbone (in generale) è “un oggetto il più deforme, il più avvilente, e il più disprezzato fra tutti quelli, che si presentano alla nostra vista”. Ciononostante, come lo stesso Molina ci teneva a specificare subito dopo, la Natura si serviva del carbone per quasi tutte le sue operazioni, anche le più sorprendenti, come la formazione del diamante. Ma che cos’era il carbone per Molina? Con lo stile proprio del tempo, lo definiva “il residuo postumo di qualunque vegetabile, che sia stato bruciato, o per arte o per qualche altra combinazione accidentale”. Questo lavoro si propone di illustrare i contenuti di quella memoria, dopo aver presentato un profilo dell'A., naturalista del secolo dei Lumi esule in Italia, dove pubblicò il "Saggio sulla storia naturale del Chili” (1782) e il "Saggio sulla Storia Civile del Chili " (1787) , che rimangono le sue opere più famose.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


