Poche volte nella storia nazionale si è dato un allineamento così preciso tra significante e significato – ovvero il simbolo e l’etimo di un segno concettuale – come tra l’uscita del film Il Boom (regia di Vittorio De Sica su sceneggiatura di Cesare Zavattini) e il chiudersi del “miracolo economico” italiano nel 1963, appena avanti che la prima congiuntura recessiva del dopoguerra (un balzo improvviso di inflazione e disoccupazione, associato ad una cospicua perdita di redditività industriale) venisse a spezzare le magnifiche sorti e progressive dettate dall’impressionante impennata di PIL e fattori produttivi registratesi dal 1957. Difatti, se già La Dolce Vita di Federico Fellini (1960) e Il Sorpasso di Dino Risi (1962) avevano osato strumentalizzare tutta l’abbacinante luce della nascente società dei consumi, per evidenziare i crescenti coni d’ombra di una folata modernizzatrice largamente diseguale, troppo fideistica e al fondo incontrollata, tra le pellicole coeve al “miracolo” è solo Il Boom ad incaricarsi di un processo ad alzo zero, privo di qualsiasi attenuante emozionale o di tragica fatalità: non c’è alcuna ottundente contorsione sentimentale (interpretata dall’irrisolto paparazzo Marcello/ Mastroianni) o popolana euforia godereccia (trasfigurata dallo scomposto menefreghismo edonista di Bruno Cortona/Vittorio Gassman) a giustificare in qualche modo il fascino discreto di un miracolo materialistico, che pareva germinare proprio per redimere le miserie, i dolori, gli strascichi della guerra. Nel Giovanni Alberti di Alberto Sordi, invece, ogni possibile “variabile” vitalistica ha ormai ceduto il passo alla mera “costante” della tigna, della feroce voluttà di uno status sociale che non ha più legami organici con l’economia reale o la nobiltà d’animo, perché completamente sussunto dall’eterea consistenza dell’apparenza oltremodo benestante, peraltro stereotipata dalle iconografie mass-mediali del self made man, arrivato e dunque “giustamente” invidiato. Terminato il processo, Il Boom emette la sua sentenza: il vero miracolo è stato affare elitario, non della massa che – parafrasando quanto verseggerà un decennio più tardi Lucio Dalla – è stata solo «per un attimo innalzata ad un ruolo difficile da mantenere» per poi essere «lasciata cadere, a piangere e a urlare», scoprendosi infine meno povera, ma sicuramente più superficiale e rancorosa.
Guzzo, D. (2020). “Il Boom”: il film che fece il processo al miracolo economico. CLIONET, 4, 76-79 [10.14273/unisa-4095].
“Il Boom”: il film che fece il processo al miracolo economico
Domenico Guzzo
2020
Abstract
Poche volte nella storia nazionale si è dato un allineamento così preciso tra significante e significato – ovvero il simbolo e l’etimo di un segno concettuale – come tra l’uscita del film Il Boom (regia di Vittorio De Sica su sceneggiatura di Cesare Zavattini) e il chiudersi del “miracolo economico” italiano nel 1963, appena avanti che la prima congiuntura recessiva del dopoguerra (un balzo improvviso di inflazione e disoccupazione, associato ad una cospicua perdita di redditività industriale) venisse a spezzare le magnifiche sorti e progressive dettate dall’impressionante impennata di PIL e fattori produttivi registratesi dal 1957. Difatti, se già La Dolce Vita di Federico Fellini (1960) e Il Sorpasso di Dino Risi (1962) avevano osato strumentalizzare tutta l’abbacinante luce della nascente società dei consumi, per evidenziare i crescenti coni d’ombra di una folata modernizzatrice largamente diseguale, troppo fideistica e al fondo incontrollata, tra le pellicole coeve al “miracolo” è solo Il Boom ad incaricarsi di un processo ad alzo zero, privo di qualsiasi attenuante emozionale o di tragica fatalità: non c’è alcuna ottundente contorsione sentimentale (interpretata dall’irrisolto paparazzo Marcello/ Mastroianni) o popolana euforia godereccia (trasfigurata dallo scomposto menefreghismo edonista di Bruno Cortona/Vittorio Gassman) a giustificare in qualche modo il fascino discreto di un miracolo materialistico, che pareva germinare proprio per redimere le miserie, i dolori, gli strascichi della guerra. Nel Giovanni Alberti di Alberto Sordi, invece, ogni possibile “variabile” vitalistica ha ormai ceduto il passo alla mera “costante” della tigna, della feroce voluttà di uno status sociale che non ha più legami organici con l’economia reale o la nobiltà d’animo, perché completamente sussunto dall’eterea consistenza dell’apparenza oltremodo benestante, peraltro stereotipata dalle iconografie mass-mediali del self made man, arrivato e dunque “giustamente” invidiato. Terminato il processo, Il Boom emette la sua sentenza: il vero miracolo è stato affare elitario, non della massa che – parafrasando quanto verseggerà un decennio più tardi Lucio Dalla – è stata solo «per un attimo innalzata ad un ruolo difficile da mantenere» per poi essere «lasciata cadere, a piangere e a urlare», scoprendosi infine meno povera, ma sicuramente più superficiale e rancorosa.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.