Nell’Italia repubblicana l’estraneità alla violenza risulta pervicacemente rivendicata dal Pci a livello nazionale come imprescindibile elemento di legittimazione democratica. Categoria pressoché assente dal discorso pubblico, la violenza è infatti privata di esplicita cittadinanza nella rappresentazione identitaria interna al partito, che attraverso un “pervasivo regime di verità” sembra piuttosto eludere gli elementi critici della sua stessa storia. E tuttavia, il confronto con il sovversivismo – peculiare dimensione sociale della violenza, che è cifra propria della storia del territorio – appare imprescindibile per il governo della società in Emilia-Romagna, dove il partito si fa Stato. Se con la Svolta di Salerno, l’affermarsi del partito nuovo e della democrazia progressiva il Pci disconosce infatti un’idea di violenza come azione rivoluzionaria per la presa del potere, resta intatto fra i suoi appartenenti uno spazio residuale di sguardo, riflessione e sofferta dialettica (in parte intima e sommessa, in parte critica e pubblica) sui limiti dell’uso consapevole della forza e sulle sue molteplici declinazioni: violenza repressiva di Stato, violenza sovversiva, violenza e affermazione delle classi subalterne e – soprattutto, ma non solo – violenza e difesa della democrazia. A partire da tali considerazioni, il saggio si prefigge di attraversare l’esperienza di governo del partito in Emilia-Romagna e lo sviluppo del discorso pubblico dei suoi dirigenti e militanti, articolando un percorso di analisi tra contesti ed eventi cardine che segnano peculiari momenti di confronto con la violenza nei diversi territori, e nello sviluppo della storia del Pci regionale in età repubblicana (tra Resistenza e anni Ottanta).
Toni Rovatti (2023). Repressione, eversione e uso consapevole della forza. I comunisti e la violenza (1943-1984). Bologna : il Mulino.
Repressione, eversione e uso consapevole della forza. I comunisti e la violenza (1943-1984)
Toni Rovatti
2023
Abstract
Nell’Italia repubblicana l’estraneità alla violenza risulta pervicacemente rivendicata dal Pci a livello nazionale come imprescindibile elemento di legittimazione democratica. Categoria pressoché assente dal discorso pubblico, la violenza è infatti privata di esplicita cittadinanza nella rappresentazione identitaria interna al partito, che attraverso un “pervasivo regime di verità” sembra piuttosto eludere gli elementi critici della sua stessa storia. E tuttavia, il confronto con il sovversivismo – peculiare dimensione sociale della violenza, che è cifra propria della storia del territorio – appare imprescindibile per il governo della società in Emilia-Romagna, dove il partito si fa Stato. Se con la Svolta di Salerno, l’affermarsi del partito nuovo e della democrazia progressiva il Pci disconosce infatti un’idea di violenza come azione rivoluzionaria per la presa del potere, resta intatto fra i suoi appartenenti uno spazio residuale di sguardo, riflessione e sofferta dialettica (in parte intima e sommessa, in parte critica e pubblica) sui limiti dell’uso consapevole della forza e sulle sue molteplici declinazioni: violenza repressiva di Stato, violenza sovversiva, violenza e affermazione delle classi subalterne e – soprattutto, ma non solo – violenza e difesa della democrazia. A partire da tali considerazioni, il saggio si prefigge di attraversare l’esperienza di governo del partito in Emilia-Romagna e lo sviluppo del discorso pubblico dei suoi dirigenti e militanti, articolando un percorso di analisi tra contesti ed eventi cardine che segnano peculiari momenti di confronto con la violenza nei diversi territori, e nello sviluppo della storia del Pci regionale in età repubblicana (tra Resistenza e anni Ottanta).| File | Dimensione | Formato | |
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