E’ solo alle soglie della modernità, in quell’epoca Meiji che vede la cosiddetta ‘occidentalizzazione’ trasformare il quotidiano del paese e di conseguenza delle giovani donne, che fa la sua apparizione il termine shōjo. Indicava allora le giovani nella fase fra la pubertà e il matrimonio, che si supponeva non avessero ancora avuto esperienze eterosessuali e che, grazie all’istruzione superiore o alle nuove professioni ora accessibili alle donne, prolungavano la giovinezza, ritardando il momento in cui il matrimonio e la maternità le avrebbero rese pienamente donne, secondo i codici della borghesia cittadina, moderna ma pur sempre legata a un’etica di impronta patriarcale. Parallelamente si sviluppa una ricca produzione culturale rivolta al nuovo target che queste giovani donne andavano rapidamente a costituire: è la cosiddetta cultura shōjo, che trova la sua prima forma di espressione nelle riviste per ragazze che proliferano fra gli anni ’20 e ’30, testimoni di un vero e proprio boom editoriale nato a margine del generale innalzamento del livello di istruzione. Fra le rubriche più seguite figuravano quelle che proponevano romanzi a puntate, specificamente pensati per un target giovane e femminile, spesso accompagnati da illustrazioni, che ben presto danno vita a un’estetica riconoscibile e codificata, e nello stesso tempo contribuiscono a delineare l’immagine stessa della shōjo, la ragazza adolescente, come figura liminale, sospesa fra l’infanzia e l’età adulta, sessualmente ambigua e coinvolta più dall’amicizia femminile che dall’amore eterosessuale. In questo contesto infatti il dōseiai, letteralmente l’amore per una persona dello stesso sesso, con il quale spesso l’intimità fra amiche o fra amici si confonde, lungi dal rappresentare una sfida alla società patriarcale e al modello di femminilità dominante – il ryōsai kenbo, la ‘buona moglie e saggia madre’ – è socialmente accettato come una sorta di apprendistato sentimentale in vista del matrimonio. Per citare Deborah Shamoon, “The ideal of dōseiai encouraged sameness, loving the one who looks just like the self”. Al centro c’è quindi un sentimento che nasce e si alimenta del riconoscersi uguali ben oltre l’appartenenza di genere, per sensibilità ma anche per educazione e scelte estetiche. Il fatto che molte delle storie trovassero il loro setting nell’ambiente scolastico gioca ovviamente a favore del processo di identificazione reciproca, che trova terreno fertile nella rigida divisione fra istituti maschili e femminili, nel contesto nettamente omosociale e nell’uso della divisa. Yoshiya Nobuko (吉屋信子) è stata all’interno di questa cultura emergente una figura di spicco. Classe 1896, esordisce giovanissima (pubblica i suoi primi, acerbi lavori su alcune riviste per ragazze a soli dodici anni), ma è nel 1916 che la rivista Shōjo gahō inizia la pubblicazione a puntate della sua prima opera importante, Hanamonogatari (花物語, letteralmente “Storie di fiori”), che proseguirà fino al 1924. Nata in una famiglia della ricca borghesia urbana di Niigata, Yoshiya aveva ricevuto un’educazione improntata ai valori tradizionali, ed è solo dopo aver seguito uno dei fratelli a Tokyo che cominciò a scrivere Hanamonogatari, traendo ispirazione dalla sua esperienza nei dormitori femminili. Anticonformista e ribelle nella vita privata, nei suoi racconti invece dà vita a figure di giovani donne o adolescenti che in un modo o nell’altro sono costrette a scendere a patti con la società e le sue rigide norme, a riconoscere l’impossibilità delle situazioni e delle relazioni che figura. Il mondo i cui si muovono i ‘fiori’ di Yoshiya diventa così un universo immaginario ed escapista, ed è proprio questo che ha protetto dalla censura le sue storie di amori fra studentesse adolescenti o fra studentesse e giovani insegnanti, destinate a sfiorire con la fine della fase shōjo e il malinconico ingresso nell’età adulta.
paola scrolavezza (2023). Yoshiya Nobuko, il dōseiai e l’emergere della cultura shōjo nel giappone fra il Meiji e il Taishō. Milano : Mimesis Edizioni.
Yoshiya Nobuko, il dōseiai e l’emergere della cultura shōjo nel giappone fra il Meiji e il Taishō
paola scrolavezza
2023
Abstract
E’ solo alle soglie della modernità, in quell’epoca Meiji che vede la cosiddetta ‘occidentalizzazione’ trasformare il quotidiano del paese e di conseguenza delle giovani donne, che fa la sua apparizione il termine shōjo. Indicava allora le giovani nella fase fra la pubertà e il matrimonio, che si supponeva non avessero ancora avuto esperienze eterosessuali e che, grazie all’istruzione superiore o alle nuove professioni ora accessibili alle donne, prolungavano la giovinezza, ritardando il momento in cui il matrimonio e la maternità le avrebbero rese pienamente donne, secondo i codici della borghesia cittadina, moderna ma pur sempre legata a un’etica di impronta patriarcale. Parallelamente si sviluppa una ricca produzione culturale rivolta al nuovo target che queste giovani donne andavano rapidamente a costituire: è la cosiddetta cultura shōjo, che trova la sua prima forma di espressione nelle riviste per ragazze che proliferano fra gli anni ’20 e ’30, testimoni di un vero e proprio boom editoriale nato a margine del generale innalzamento del livello di istruzione. Fra le rubriche più seguite figuravano quelle che proponevano romanzi a puntate, specificamente pensati per un target giovane e femminile, spesso accompagnati da illustrazioni, che ben presto danno vita a un’estetica riconoscibile e codificata, e nello stesso tempo contribuiscono a delineare l’immagine stessa della shōjo, la ragazza adolescente, come figura liminale, sospesa fra l’infanzia e l’età adulta, sessualmente ambigua e coinvolta più dall’amicizia femminile che dall’amore eterosessuale. In questo contesto infatti il dōseiai, letteralmente l’amore per una persona dello stesso sesso, con il quale spesso l’intimità fra amiche o fra amici si confonde, lungi dal rappresentare una sfida alla società patriarcale e al modello di femminilità dominante – il ryōsai kenbo, la ‘buona moglie e saggia madre’ – è socialmente accettato come una sorta di apprendistato sentimentale in vista del matrimonio. Per citare Deborah Shamoon, “The ideal of dōseiai encouraged sameness, loving the one who looks just like the self”. Al centro c’è quindi un sentimento che nasce e si alimenta del riconoscersi uguali ben oltre l’appartenenza di genere, per sensibilità ma anche per educazione e scelte estetiche. Il fatto che molte delle storie trovassero il loro setting nell’ambiente scolastico gioca ovviamente a favore del processo di identificazione reciproca, che trova terreno fertile nella rigida divisione fra istituti maschili e femminili, nel contesto nettamente omosociale e nell’uso della divisa. Yoshiya Nobuko (吉屋信子) è stata all’interno di questa cultura emergente una figura di spicco. Classe 1896, esordisce giovanissima (pubblica i suoi primi, acerbi lavori su alcune riviste per ragazze a soli dodici anni), ma è nel 1916 che la rivista Shōjo gahō inizia la pubblicazione a puntate della sua prima opera importante, Hanamonogatari (花物語, letteralmente “Storie di fiori”), che proseguirà fino al 1924. Nata in una famiglia della ricca borghesia urbana di Niigata, Yoshiya aveva ricevuto un’educazione improntata ai valori tradizionali, ed è solo dopo aver seguito uno dei fratelli a Tokyo che cominciò a scrivere Hanamonogatari, traendo ispirazione dalla sua esperienza nei dormitori femminili. Anticonformista e ribelle nella vita privata, nei suoi racconti invece dà vita a figure di giovani donne o adolescenti che in un modo o nell’altro sono costrette a scendere a patti con la società e le sue rigide norme, a riconoscere l’impossibilità delle situazioni e delle relazioni che figura. Il mondo i cui si muovono i ‘fiori’ di Yoshiya diventa così un universo immaginario ed escapista, ed è proprio questo che ha protetto dalla censura le sue storie di amori fra studentesse adolescenti o fra studentesse e giovani insegnanti, destinate a sfiorire con la fine della fase shōjo e il malinconico ingresso nell’età adulta.File | Dimensione | Formato | |
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