In A Seventh Man (1975), lo scrittore John Berger e il fotografo Jean Mohr dedicano la loro attenzione all’esperienza dei Gastarbeiter migrati dal meridione europeo e dai paesi dell’Est verso la più ricca Europa settentrionale, dove, a metà degli anni Settanta, un settimo della manodopera migrante (da qui, l’immagine del titolo, tolta da una poesia dell’ungherese Attila Joszef) è di origine straniera. Come osservò Geoff Dyer (1986) e, più recentemente, ha ribadito Levent Soysal (2003), il “settimo uomo” di Berger e Mohr “non può essere visto né ascoltato ed è mantenuto separato dall’immaginazione europea attraverso barriere invisibili” , al punto che la sua esistenza è possibile solo come “un evento all’interno di un sogno sognato da qualcun altro ”, in una sorta di sovra-determinazione completa, tanto simbolica quanto materiale, che ne fa, così come teorizzato da Homi Bhabha, l’automaton, lo straniero, nell’accezione freudiana, chi non può riscoprirsi né permettere l’altrui riscoperta come soggetto. In tal senso, A Seventh Man, dove la presenza del migrante è caratterizzata da un’opacità che manifesta la “radicale incommensurabilità della traduzione” , si pone come contraltare della migrazione come traduzione, capace di rendere inclusivi i confini simbolici e materiali della nazione, identificata da Bhabha nei Satanic Verses (1988) di Salman Rushdie. Su questa dicotomizzazione tra i poli dell’opacità linguistica e della molteplice traducibilità si fonderà una buona parte degli studi postcoloniali e diasporici successivi. Se il modello teorico proposto da Homi Bhabha (1990) è stato successivamente criticato (cfr. Göktürk 2002, Adelson 2005, Özden Firat 2011, Benita Parry 1996), nell’opera di Berger e Mohr, si può rintracciare, invece, la costante formalizzazione di una dialettica della traduzione che si pone come snodo fondamentale e rende meglio conto del complesso commercio tra traducibilità e intraducibilità. Tale dialettica si manifesta essenzialmente in due modi, ossia nella tematizzazione della traducibilità e nella costruzione dell’opera come foto-testo. Nel primo caso, la presenza costante, nel testo, di una riflessione sullo statuto della parola non si esaurisce nella dimensione meta-letteraria che pure le è propria, ma instaura sempre un confronto dialettico con la propria possibilità/impossibilità di traduzione. Senza mai attestarsi definitivamente sul momento negativo – privilegiato, invece, dall’interpretazione di Bhabha – tale movimento dialettico riceve una ulteriore svolta, come segnalato nella prefazione di Berger alla nuova edizione del libro, nel 2010 , dalle traduzioni dell’opera “in turco, greco, arabo, portoghese, spagnolo, punjabi”, offrendone la possibilità di lettura alle “persone di cui parlava”, ovvero interessando lingue e territori tanto europei quanto non-europei, e integrandoli così in quella “immaginazione europea” dalla quale, secondo Soysal (2003), l’esperienza e l’immaginazione dei Gastarbeiter erano mantenuti separati. Per quanto riguarda la costruzione del libro come foto-testo, Berger e Mohr si premurano, fin dalla nota introduttiva alla prima edizione, di avvisare il lettore che la relazione tra immagine e testo è “illustrativa soltanto in alcune occasioni” , e quindi lo statuto della parola e quello dell’immagine devono essere “considerati in modo autonomo” . Anche l’utilizzo del testo con funzione di didascalia è occasionale: la sua collocazione all’interno del testo oppure nell’apparato paratestuale conclusivo avviene in funzione della necessità, o meno, di “informazioni documentarie” all’interno dell’opera. Questa insistenza sulla documentalità non deve trarre in inganno: nei suoi saggi di teoria fotografica (Understanding a Photograph, 2013) e, ancora con Mohr, in Another Way of Telling (1982), Berger ha sostenuto che la fotografia non è una traduzione diretta in immagine della realtà, o meglio delle sue appearances, bensì una “citazione” di dette “apparenze” (da intendersi in senso fenomenologico). La fotografia, dunque, è portatrice di evidenze in prima battuta irrefutabili, ma presenta una scarsità di significato, che è invece “da scoprirsi nelle connessioni e non può esistere senza sviluppo. Senza una storia, senza il suo dispiegarsi, non c’è significato ”. Si costituisce dunque una relazione dialettica anche tra parola e immagine: la parola fornisce uno sviluppo temporale laddove la fotografia è costitutivamente legata all’istante; la fotografia, invece, giustifica la definizione del testo nei termini di genere del “family album ” – rivendicata esplicitamente da Berger – che sarebbe altrimenti impossibile per un testo letterario privo di marche di intermedialità (si veda, a questo proposito, anche il precedente foto-testo di Berger e Mohr, A Fortunate Man, 1972)

S. Albertazzi, L.M. (2022). Altre voci, altri silenzi. A Seventh Man di John Berger e Jean Mohr. Milano : Meltemi.

Altre voci, altri silenzi. A Seventh Man di John Berger e Jean Mohr

S. Albertazzi;L. Mari
2022

Abstract

In A Seventh Man (1975), lo scrittore John Berger e il fotografo Jean Mohr dedicano la loro attenzione all’esperienza dei Gastarbeiter migrati dal meridione europeo e dai paesi dell’Est verso la più ricca Europa settentrionale, dove, a metà degli anni Settanta, un settimo della manodopera migrante (da qui, l’immagine del titolo, tolta da una poesia dell’ungherese Attila Joszef) è di origine straniera. Come osservò Geoff Dyer (1986) e, più recentemente, ha ribadito Levent Soysal (2003), il “settimo uomo” di Berger e Mohr “non può essere visto né ascoltato ed è mantenuto separato dall’immaginazione europea attraverso barriere invisibili” , al punto che la sua esistenza è possibile solo come “un evento all’interno di un sogno sognato da qualcun altro ”, in una sorta di sovra-determinazione completa, tanto simbolica quanto materiale, che ne fa, così come teorizzato da Homi Bhabha, l’automaton, lo straniero, nell’accezione freudiana, chi non può riscoprirsi né permettere l’altrui riscoperta come soggetto. In tal senso, A Seventh Man, dove la presenza del migrante è caratterizzata da un’opacità che manifesta la “radicale incommensurabilità della traduzione” , si pone come contraltare della migrazione come traduzione, capace di rendere inclusivi i confini simbolici e materiali della nazione, identificata da Bhabha nei Satanic Verses (1988) di Salman Rushdie. Su questa dicotomizzazione tra i poli dell’opacità linguistica e della molteplice traducibilità si fonderà una buona parte degli studi postcoloniali e diasporici successivi. Se il modello teorico proposto da Homi Bhabha (1990) è stato successivamente criticato (cfr. Göktürk 2002, Adelson 2005, Özden Firat 2011, Benita Parry 1996), nell’opera di Berger e Mohr, si può rintracciare, invece, la costante formalizzazione di una dialettica della traduzione che si pone come snodo fondamentale e rende meglio conto del complesso commercio tra traducibilità e intraducibilità. Tale dialettica si manifesta essenzialmente in due modi, ossia nella tematizzazione della traducibilità e nella costruzione dell’opera come foto-testo. Nel primo caso, la presenza costante, nel testo, di una riflessione sullo statuto della parola non si esaurisce nella dimensione meta-letteraria che pure le è propria, ma instaura sempre un confronto dialettico con la propria possibilità/impossibilità di traduzione. Senza mai attestarsi definitivamente sul momento negativo – privilegiato, invece, dall’interpretazione di Bhabha – tale movimento dialettico riceve una ulteriore svolta, come segnalato nella prefazione di Berger alla nuova edizione del libro, nel 2010 , dalle traduzioni dell’opera “in turco, greco, arabo, portoghese, spagnolo, punjabi”, offrendone la possibilità di lettura alle “persone di cui parlava”, ovvero interessando lingue e territori tanto europei quanto non-europei, e integrandoli così in quella “immaginazione europea” dalla quale, secondo Soysal (2003), l’esperienza e l’immaginazione dei Gastarbeiter erano mantenuti separati. Per quanto riguarda la costruzione del libro come foto-testo, Berger e Mohr si premurano, fin dalla nota introduttiva alla prima edizione, di avvisare il lettore che la relazione tra immagine e testo è “illustrativa soltanto in alcune occasioni” , e quindi lo statuto della parola e quello dell’immagine devono essere “considerati in modo autonomo” . Anche l’utilizzo del testo con funzione di didascalia è occasionale: la sua collocazione all’interno del testo oppure nell’apparato paratestuale conclusivo avviene in funzione della necessità, o meno, di “informazioni documentarie” all’interno dell’opera. Questa insistenza sulla documentalità non deve trarre in inganno: nei suoi saggi di teoria fotografica (Understanding a Photograph, 2013) e, ancora con Mohr, in Another Way of Telling (1982), Berger ha sostenuto che la fotografia non è una traduzione diretta in immagine della realtà, o meglio delle sue appearances, bensì una “citazione” di dette “apparenze” (da intendersi in senso fenomenologico). La fotografia, dunque, è portatrice di evidenze in prima battuta irrefutabili, ma presenta una scarsità di significato, che è invece “da scoprirsi nelle connessioni e non può esistere senza sviluppo. Senza una storia, senza il suo dispiegarsi, non c’è significato ”. Si costituisce dunque una relazione dialettica anche tra parola e immagine: la parola fornisce uno sviluppo temporale laddove la fotografia è costitutivamente legata all’istante; la fotografia, invece, giustifica la definizione del testo nei termini di genere del “family album ” – rivendicata esplicitamente da Berger – che sarebbe altrimenti impossibile per un testo letterario privo di marche di intermedialità (si veda, a questo proposito, anche il precedente foto-testo di Berger e Mohr, A Fortunate Man, 1972)
2022
Diversità e inclusione. Quando le parole sono importanti
153
168
S. Albertazzi, L.M. (2022). Altre voci, altri silenzi. A Seventh Man di John Berger e Jean Mohr. Milano : Meltemi.
S. Albertazzi, L. Mari
File in questo prodotto:
Eventuali allegati, non sono esposti

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/911258
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact