Poco dopo le 19.00 del 20 dicembre 1932, Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, arrivò a Imola per inaugurare la nuova sede dell’Opera Nazionale Dopolavoro: i festeggiamenti furono sfarzosi, il centro della città si presentava illuminato da migliaia di lampadine e sulla sommità di palazzo Sersanti si leggeva la frase di Mussolini Imola custode vigile e fedele della strada dei Cesari scritta a caratteri luminosi. Rimangono le fotografie di quell’apparato effimero, quelle della nuova sede del Dopolavoro e, soprattutto, quella di palazzo Sersanti, emblema dell’Imola dal «volto patriottico, guerriero e fascista» nel quale il maggior monumento della città venne risignificato attraverso l’apposizione di una frase capace di mettere in relazione la cittadina con Roma sul piano geografico, e con il mito della romanità, su quello simbolico. Anche nella città che aveva dato i natali ad Andrea Costa, il Fascismo trasformò l’assetto urbano dell’abitato promuovendo la costruzione di nuove infrastrutture e edifici o facendo proprie opere realizzate in precedenza. Rimanendo in un ambito locale come quello romagnolo, se la maggior parte delle cittadine conobbe una significativa trasformazione tra le due guerre, i cui esiti architettonici risultano oggi ancora facilmente individuabili nella loro compagine, Imola non ebbe un programma di opere pubbliche, speculazione immobiliare nel centro città o iniziative private altrettanto estesi come, per esempio, quelle delle vicine Forlì o Ravenna. Dopo un primo periodo circoscrivibile tra il 1922 e il Decennale della rivoluzione fascista, durante il quale il linguaggio adottato dal Regime per qualificare la propria attività apparteneva in larga misura, a Imola come altrove, a un dizionario eclettico, solo attorno alla metà degli anni Trenta si assiste a sporadici episodi che volevano essere – almeno linguisticamente – vicini all’architettura razionale ma che ricalcavano, piuttosto, l’impronta del classicismo semplificato promosso dai maggiori architetti di regime: erano gli anni della polemica per il moderno che Giuseppe Pagano riassumeva efficacemente in quell’«equivoco di considerare opera d’arte moderna e produzione degna di lode […] tutta quella paccottiglia ingombrante vanitosa e scenografica che i Comuni e lo Stato e le Provincie e i privati vanno troppo spesso montando, credendo di costruire “razionale”». Appartenendo a un contesto culturale e geografico periferico rispetto ai centri del dibattito architettonico e, proprio per questo, esemplare della condizione delle città di piccole e medie dimensioni italiane, l’architettura realizzata a Imola rispecchia i modi con i quali il Fascismo intendeva tipicamente il governo della città e le politiche urbane che si esprimevano, a livello linguistico, attraverso quella posizione tanto invisa a Pagano. A dispetto di investimenti non così cospicui come si voleva far credere, l’attività edilizia del Fascismo a Imola spese nell’arco di soli tre anni, tra il 1932 e il 1935, quattordici milioni di lire per opere pubbliche. La città precedente a questi lavori veniva dipinta come abbandonata per glorificare quanto realizzato; sulle pagine di «Opere pubbliche», rivista di propaganda del regime diretta da Ezio Cingolani, l’abitato era così descritto: nel 1922 «Imola presentava un aspetto quasi desolante: strade impraticabili e rotte in più punti, viali periferici abbandonati, acquedotto inservibile, scarse abitazioni popolari antigieniche, mancanza di decoro e di pulizia in quelle private, disorganizzazione in tutti i luoghi e in tutti i servizi pubblici». Nuove opere stradali, igieniche e edilizie mostrate sulle pagine della rivista in una rassegna sistematica per quanto enfatica apparivano, tuttavia, esiti modesti e rapidamente eseguiti, in linea con quanto realizzato in centri di analoghe dimensioni. Fanno eccezione il Monumento ai caduti, il restauro di alcuni edifici antichi e la costruzione del nuovo Centro cittadino in quegli anni ancora in esecuzione che, collocandosi nei punti nevralgici del centro urbano, sembrano essere l’esiguo esito di quel «grandioso complesso di opere» che il Fascismo avrebbe inteso promuovere ma che rimaneva, primariamente, voce della propaganda. Ne è testimonianza, per esempio, la contraddittoria vicenda degli scavi dell’anfiteatro dell’antica Forum Cornelii, avviati dalla Regia Soprintendenza alle antichità nel 1929 e mai condotti a termine nonostante il possibile uso in chiave politica della riscoperta dei fasti della città romana, pratica all’epoca ricorrente da parte del fascismo in tutta la penisola. All’interno dell’eterogeneità delle esperienze condotte in città, tra le quali non è possibile leggere una politica urbana unitaria o perlomeno un’uniformità di esiti da parte del Comune, gli edifici che più mostrano, per imponenza e importanza, il volto dell’architettura “fascista” di Imola sono entrambi opere di Adriano Marabini (1897-1975): la casa del Fascio (1933-36) e la colonia “Andrea Tabanelli” (1934-40).
Matteo Cassani Simonetti (2022). Opere pubbliche e pratica professionale a Imola tra le due guerre. Bologna : Bononia University Press.
Opere pubbliche e pratica professionale a Imola tra le due guerre
Matteo Cassani Simonetti
2022
Abstract
Poco dopo le 19.00 del 20 dicembre 1932, Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, arrivò a Imola per inaugurare la nuova sede dell’Opera Nazionale Dopolavoro: i festeggiamenti furono sfarzosi, il centro della città si presentava illuminato da migliaia di lampadine e sulla sommità di palazzo Sersanti si leggeva la frase di Mussolini Imola custode vigile e fedele della strada dei Cesari scritta a caratteri luminosi. Rimangono le fotografie di quell’apparato effimero, quelle della nuova sede del Dopolavoro e, soprattutto, quella di palazzo Sersanti, emblema dell’Imola dal «volto patriottico, guerriero e fascista» nel quale il maggior monumento della città venne risignificato attraverso l’apposizione di una frase capace di mettere in relazione la cittadina con Roma sul piano geografico, e con il mito della romanità, su quello simbolico. Anche nella città che aveva dato i natali ad Andrea Costa, il Fascismo trasformò l’assetto urbano dell’abitato promuovendo la costruzione di nuove infrastrutture e edifici o facendo proprie opere realizzate in precedenza. Rimanendo in un ambito locale come quello romagnolo, se la maggior parte delle cittadine conobbe una significativa trasformazione tra le due guerre, i cui esiti architettonici risultano oggi ancora facilmente individuabili nella loro compagine, Imola non ebbe un programma di opere pubbliche, speculazione immobiliare nel centro città o iniziative private altrettanto estesi come, per esempio, quelle delle vicine Forlì o Ravenna. Dopo un primo periodo circoscrivibile tra il 1922 e il Decennale della rivoluzione fascista, durante il quale il linguaggio adottato dal Regime per qualificare la propria attività apparteneva in larga misura, a Imola come altrove, a un dizionario eclettico, solo attorno alla metà degli anni Trenta si assiste a sporadici episodi che volevano essere – almeno linguisticamente – vicini all’architettura razionale ma che ricalcavano, piuttosto, l’impronta del classicismo semplificato promosso dai maggiori architetti di regime: erano gli anni della polemica per il moderno che Giuseppe Pagano riassumeva efficacemente in quell’«equivoco di considerare opera d’arte moderna e produzione degna di lode […] tutta quella paccottiglia ingombrante vanitosa e scenografica che i Comuni e lo Stato e le Provincie e i privati vanno troppo spesso montando, credendo di costruire “razionale”». Appartenendo a un contesto culturale e geografico periferico rispetto ai centri del dibattito architettonico e, proprio per questo, esemplare della condizione delle città di piccole e medie dimensioni italiane, l’architettura realizzata a Imola rispecchia i modi con i quali il Fascismo intendeva tipicamente il governo della città e le politiche urbane che si esprimevano, a livello linguistico, attraverso quella posizione tanto invisa a Pagano. A dispetto di investimenti non così cospicui come si voleva far credere, l’attività edilizia del Fascismo a Imola spese nell’arco di soli tre anni, tra il 1932 e il 1935, quattordici milioni di lire per opere pubbliche. La città precedente a questi lavori veniva dipinta come abbandonata per glorificare quanto realizzato; sulle pagine di «Opere pubbliche», rivista di propaganda del regime diretta da Ezio Cingolani, l’abitato era così descritto: nel 1922 «Imola presentava un aspetto quasi desolante: strade impraticabili e rotte in più punti, viali periferici abbandonati, acquedotto inservibile, scarse abitazioni popolari antigieniche, mancanza di decoro e di pulizia in quelle private, disorganizzazione in tutti i luoghi e in tutti i servizi pubblici». Nuove opere stradali, igieniche e edilizie mostrate sulle pagine della rivista in una rassegna sistematica per quanto enfatica apparivano, tuttavia, esiti modesti e rapidamente eseguiti, in linea con quanto realizzato in centri di analoghe dimensioni. Fanno eccezione il Monumento ai caduti, il restauro di alcuni edifici antichi e la costruzione del nuovo Centro cittadino in quegli anni ancora in esecuzione che, collocandosi nei punti nevralgici del centro urbano, sembrano essere l’esiguo esito di quel «grandioso complesso di opere» che il Fascismo avrebbe inteso promuovere ma che rimaneva, primariamente, voce della propaganda. Ne è testimonianza, per esempio, la contraddittoria vicenda degli scavi dell’anfiteatro dell’antica Forum Cornelii, avviati dalla Regia Soprintendenza alle antichità nel 1929 e mai condotti a termine nonostante il possibile uso in chiave politica della riscoperta dei fasti della città romana, pratica all’epoca ricorrente da parte del fascismo in tutta la penisola. All’interno dell’eterogeneità delle esperienze condotte in città, tra le quali non è possibile leggere una politica urbana unitaria o perlomeno un’uniformità di esiti da parte del Comune, gli edifici che più mostrano, per imponenza e importanza, il volto dell’architettura “fascista” di Imola sono entrambi opere di Adriano Marabini (1897-1975): la casa del Fascio (1933-36) e la colonia “Andrea Tabanelli” (1934-40).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.