Il presente contributo si inserisce all’interno di un più ampio progetto di ricerca etnografica su tre comunità per minori di Roma, delle quali sono state analizzate le dimensioni organizzative ed interazionali (Saglietti, 2010). Approfondiremo all’interno di questo contributo l’analisi delle pratiche di rapporto delle comunità con le famiglie di origine dei minori, come uno degli indicatori per descrivere le teorie implicite d’azione che costruiscono la vita quotidiana dei minori in comunità. Useremo a tal fine come principali dati empirici i discorsi e le pratiche sociali delle comunità osservate, rilevati attraverso metodologie etnografiche (osservazioni e interviste narrative) e conversazionali (estratti di conversazioni “familiari” durante le cene videoregistrate nelle tre comunità studiate). Tale scelta metodologica va argomentata e spiegata, seppur brevemente, alla luce delle opzioni teoriche che l’hanno motivata e che costituiscono le lenti attraverso cui abbiamo indagato il fenomeno oggetto dello studio. Una prima opzione teorica è stata considerare i processi psicologici non come processi interni e individuali ma come pratiche sociali distribuite nelle interazioni materiali e discorsive con l’ambiente sociale (Zucchermaglio, 2002). Tale scelta trova i suoi antecedenti teorici nella psicologia culturale (Vygotsky, 1990) e nel filone dell’interazionismo simbolico (Mead, 1972), anche nelle loro articolazioni recenti, quali la teoria dell’azione situata (Suchman, 1987), la teoria della cognizione distribuita (Hutchins, 1995) e il filone della cognizione in pratica (Lave, 1988; Rogoff, Lave, 1984). Una seconda opzione teorica è la considerazione della centralità delle attività discorsive come dati empirici di una ricerca psicologica culturalmente ed interattivamente orientata. Il discorso viene considerato il modello dell’attività mentale condivisa (Mecacci, 1999), come una pratica sociale (Duranti, 2003), come «il risultato di un’interazione sociale che da un lato si riflette nel discorso e dall’altro lato contribuisce a produrlo» (Mantovani, 2008: 24). Indagare le pratiche discorsive diventa un locus di indagine di quelle che l’etnometodologia chiama teorie implicite d’azione, ovvero sistemi di rappresentazione e di spiegazione che gli attori sociali utilizzano per rendere intelleggibili le proprie pratiche situate. La terza opzione teorica, strettamente legata alla precedente, riguarda la scelta di adottare un approccio etnometodologico-discorsivo per lo studio delle interazioni attraverso cui le comunità “fanno famiglia” (Aronsson, 2006). In questo quadro, la famiglia non viene vista come un gruppo dato e con confini precisi, ma come un insieme di interazioni mobili continuamente ri-negoziate che danno luogo ai diversi possibili modi con cui le famiglie “fanno famiglia”. Studiare le interazioni sociali e discorsive attraverso cui si “fa famiglia” significa, per usare le parole di Charles Goodwin (2006), ricostruire il local social landscape, ovvero il quadro di eventi passati, sistemi di attività locali e traiettorie future che, distribuiti nelle interazioni, nel linguaggio e negli artefatti “familiari” (non ultimo, il lessico familiare) danno forma ad una specifica famiglia distinta dalle altre. Attraverso queste mosse interattive, infatti, si costruisce giorno per giorno quello che i membri chiamano “la mia famiglia” (Aarsand & Aronsson, 2007; Giorgi et al., 2009; Ochs & Kremer-Sadlik, 2007). La quarta opzione teorica riguarda la concezione di sviluppo/socializzazione come processo costruito culturalmente e discorsivamente attraverso la partecipazione ad attività sociali, anche familiari (e non come un processo interno e cognitivo di progressione attraverso stadi prefissati). E’ proprio nella possibilità di sperimentarsi dal punto di vista interazionale che il bambino prima e l’adolescente poi diventano “adulti”. Detto in altri termini, il pensiero si può costruire e praticare solo all’interno di spazi e attività sociali e discorsive che lo permettono e lo sostengono. Per realizzare una piena socializzazione culturale (così come per costruire la propria narrazione identitaria) il ragazzo ha bisogno di partecipare a quelli che Perret-Clermont (2004) definisce thinking spaces, contesti sociali che offrano mezzi discorsivi, interlocutori stabili e significativi nonché regole del gioco sicure da un punto di vista emotivo che gli garantiscano le risorse simboliche necessarie a crescere (Zittoun, 2006). Tutta la tradizione di ricerca psico-culturale considera, infatti, la partecipazione dei bambini a contesti sociali culturalmente connotati come «a critical foundation upon which social relationships and ultimately cultural meaning systems are constructed» (Harkness & Super, 2001: 358). Tra tali contesti, ovviamente, un posto speciale spetta alla famiglia. Questa è considerata come la prima arena:1) di partecipazione sociale e di sperimentazione delle proprie competenze di membro capace della società; 2) di gestione della propria “voce della mente” (Heath, 2006); 3) di acquisizione delle competenze linguistiche della comunità di appartenenza. Non a caso, infatti, gli studi condotti nell’ambito della language socialization theory (Ochs, 1988, 2006; Ochs & Schefflin, 1988) concentrano l’attenzione su come le interazioni familiari quotidiane (e in particolare le routines interattive, quali, ad esempio, le “cene familiari” oggetto anche di questo contributo) sono organizzate, strutturate e realizzate per essere risorse per la socializzazione culturale dei minori.

Famiglie d'origine e comunità per minori: quali interazioni?

Saglietti Marzia
;
2011

Abstract

Il presente contributo si inserisce all’interno di un più ampio progetto di ricerca etnografica su tre comunità per minori di Roma, delle quali sono state analizzate le dimensioni organizzative ed interazionali (Saglietti, 2010). Approfondiremo all’interno di questo contributo l’analisi delle pratiche di rapporto delle comunità con le famiglie di origine dei minori, come uno degli indicatori per descrivere le teorie implicite d’azione che costruiscono la vita quotidiana dei minori in comunità. Useremo a tal fine come principali dati empirici i discorsi e le pratiche sociali delle comunità osservate, rilevati attraverso metodologie etnografiche (osservazioni e interviste narrative) e conversazionali (estratti di conversazioni “familiari” durante le cene videoregistrate nelle tre comunità studiate). Tale scelta metodologica va argomentata e spiegata, seppur brevemente, alla luce delle opzioni teoriche che l’hanno motivata e che costituiscono le lenti attraverso cui abbiamo indagato il fenomeno oggetto dello studio. Una prima opzione teorica è stata considerare i processi psicologici non come processi interni e individuali ma come pratiche sociali distribuite nelle interazioni materiali e discorsive con l’ambiente sociale (Zucchermaglio, 2002). Tale scelta trova i suoi antecedenti teorici nella psicologia culturale (Vygotsky, 1990) e nel filone dell’interazionismo simbolico (Mead, 1972), anche nelle loro articolazioni recenti, quali la teoria dell’azione situata (Suchman, 1987), la teoria della cognizione distribuita (Hutchins, 1995) e il filone della cognizione in pratica (Lave, 1988; Rogoff, Lave, 1984). Una seconda opzione teorica è la considerazione della centralità delle attività discorsive come dati empirici di una ricerca psicologica culturalmente ed interattivamente orientata. Il discorso viene considerato il modello dell’attività mentale condivisa (Mecacci, 1999), come una pratica sociale (Duranti, 2003), come «il risultato di un’interazione sociale che da un lato si riflette nel discorso e dall’altro lato contribuisce a produrlo» (Mantovani, 2008: 24). Indagare le pratiche discorsive diventa un locus di indagine di quelle che l’etnometodologia chiama teorie implicite d’azione, ovvero sistemi di rappresentazione e di spiegazione che gli attori sociali utilizzano per rendere intelleggibili le proprie pratiche situate. La terza opzione teorica, strettamente legata alla precedente, riguarda la scelta di adottare un approccio etnometodologico-discorsivo per lo studio delle interazioni attraverso cui le comunità “fanno famiglia” (Aronsson, 2006). In questo quadro, la famiglia non viene vista come un gruppo dato e con confini precisi, ma come un insieme di interazioni mobili continuamente ri-negoziate che danno luogo ai diversi possibili modi con cui le famiglie “fanno famiglia”. Studiare le interazioni sociali e discorsive attraverso cui si “fa famiglia” significa, per usare le parole di Charles Goodwin (2006), ricostruire il local social landscape, ovvero il quadro di eventi passati, sistemi di attività locali e traiettorie future che, distribuiti nelle interazioni, nel linguaggio e negli artefatti “familiari” (non ultimo, il lessico familiare) danno forma ad una specifica famiglia distinta dalle altre. Attraverso queste mosse interattive, infatti, si costruisce giorno per giorno quello che i membri chiamano “la mia famiglia” (Aarsand & Aronsson, 2007; Giorgi et al., 2009; Ochs & Kremer-Sadlik, 2007). La quarta opzione teorica riguarda la concezione di sviluppo/socializzazione come processo costruito culturalmente e discorsivamente attraverso la partecipazione ad attività sociali, anche familiari (e non come un processo interno e cognitivo di progressione attraverso stadi prefissati). E’ proprio nella possibilità di sperimentarsi dal punto di vista interazionale che il bambino prima e l’adolescente poi diventano “adulti”. Detto in altri termini, il pensiero si può costruire e praticare solo all’interno di spazi e attività sociali e discorsive che lo permettono e lo sostengono. Per realizzare una piena socializzazione culturale (così come per costruire la propria narrazione identitaria) il ragazzo ha bisogno di partecipare a quelli che Perret-Clermont (2004) definisce thinking spaces, contesti sociali che offrano mezzi discorsivi, interlocutori stabili e significativi nonché regole del gioco sicure da un punto di vista emotivo che gli garantiscano le risorse simboliche necessarie a crescere (Zittoun, 2006). Tutta la tradizione di ricerca psico-culturale considera, infatti, la partecipazione dei bambini a contesti sociali culturalmente connotati come «a critical foundation upon which social relationships and ultimately cultural meaning systems are constructed» (Harkness & Super, 2001: 358). Tra tali contesti, ovviamente, un posto speciale spetta alla famiglia. Questa è considerata come la prima arena:1) di partecipazione sociale e di sperimentazione delle proprie competenze di membro capace della società; 2) di gestione della propria “voce della mente” (Heath, 2006); 3) di acquisizione delle competenze linguistiche della comunità di appartenenza. Non a caso, infatti, gli studi condotti nell’ambito della language socialization theory (Ochs, 1988, 2006; Ochs & Schefflin, 1988) concentrano l’attenzione su come le interazioni familiari quotidiane (e in particolare le routines interattive, quali, ad esempio, le “cene familiari” oggetto anche di questo contributo) sono organizzate, strutturate e realizzate per essere risorse per la socializzazione culturale dei minori.
2011
Genitorialità complesse. Interventi di rete a sostegno dei sistemi famigliari in crisi
150
172
Saglietti Marzia; Zucchermaglio Cristina
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