Il termine arabo comunemente utilizzato per designare un musulmano che abbandona l’Islam è murtadd. L’apostasia, in arabo ridda o irtidâd, si configura nel diritto islamico come un reato, passibile di morte in virtù di quella che viene definita «pena dell’apostasia» (hadd al-ridda). Il Corano, tuttavia, non prescrive alcun castigo terreno per l’apostata, rimandando all’aldilà la punizione da Dio destinata ai rinnegati, mentre nella Sunna solo due hadîth, peraltro di dubbia autenticità, autorizzano l’uccisione dell’apostata.La questione della liceità o meno della pena prevista per l’apostasia è di drammatica attualità, in un momento storico in cui gruppi estremisti fanno dell’uccisione del kâfir (“miscredente”) e del murtadd (“apostata”) la loro bandiera. Essa, inoltre, è strettamente collegata alle questioni della libertà d’espressione (hurriyyat al-ta‘bîr) e della riforma religiosa (islâh), dal momento che a essere bollati come apostati non sono solo coloro che dall’Islam si convertono a un’altra religione, ma anche coloro che, restando musulmani, si fanno portavoce di idee ritenute blasfeme o di proposte di rinnovamento del discorso religioso qualificate come incompatibili con l’ortodossia. I due casi più noti in tal senso sono probabilmente quello dello scrittore anglo-indiano Salmân Rushdie (n. 1947), accusato di apostasia e dichiarato reo di morte dall’Ayatollah Khomeini nel 1989 per aver scritto il romanzo dissacrante "I versi satanici" e quello dell’intellettuale egiziano Nasr Hâmid Abû Zayd (m. 2010), condannato come apostata da un tribunale del Cairo nel 1995 per aver proposto un’interpretazione storico-razionalistica del Corano. Questi e molti altri episodi dello stesso tenore hanno alimentato un intenso dibattito nel mondo islamico, che ha visto diversi intellettuali levarsi contro la pena dell’apostasia. Tra questi, un posto di rilievo spetta senza dubbio all’egiziano Ahmad Subhî Mansûr (n. 1949). Nel presente contributo, analizziamo il suo testo "Hadd al-ridda", nel quale egli esamina il concetto di «apostasia» tanto da un punto di vista linguistico ed esegetico quanto in prospettiva storico-critica, soffermandosi preliminarmente sullo stesso termine hadd.
Ines Peta (2017). Apostasia e libertà religiosa nel Corano: l’analisi di Ahmad Subhî Mansûr. Venezia : Marsilio.
Apostasia e libertà religiosa nel Corano: l’analisi di Ahmad Subhî Mansûr
Ines Peta
2017
Abstract
Il termine arabo comunemente utilizzato per designare un musulmano che abbandona l’Islam è murtadd. L’apostasia, in arabo ridda o irtidâd, si configura nel diritto islamico come un reato, passibile di morte in virtù di quella che viene definita «pena dell’apostasia» (hadd al-ridda). Il Corano, tuttavia, non prescrive alcun castigo terreno per l’apostata, rimandando all’aldilà la punizione da Dio destinata ai rinnegati, mentre nella Sunna solo due hadîth, peraltro di dubbia autenticità, autorizzano l’uccisione dell’apostata.La questione della liceità o meno della pena prevista per l’apostasia è di drammatica attualità, in un momento storico in cui gruppi estremisti fanno dell’uccisione del kâfir (“miscredente”) e del murtadd (“apostata”) la loro bandiera. Essa, inoltre, è strettamente collegata alle questioni della libertà d’espressione (hurriyyat al-ta‘bîr) e della riforma religiosa (islâh), dal momento che a essere bollati come apostati non sono solo coloro che dall’Islam si convertono a un’altra religione, ma anche coloro che, restando musulmani, si fanno portavoce di idee ritenute blasfeme o di proposte di rinnovamento del discorso religioso qualificate come incompatibili con l’ortodossia. I due casi più noti in tal senso sono probabilmente quello dello scrittore anglo-indiano Salmân Rushdie (n. 1947), accusato di apostasia e dichiarato reo di morte dall’Ayatollah Khomeini nel 1989 per aver scritto il romanzo dissacrante "I versi satanici" e quello dell’intellettuale egiziano Nasr Hâmid Abû Zayd (m. 2010), condannato come apostata da un tribunale del Cairo nel 1995 per aver proposto un’interpretazione storico-razionalistica del Corano. Questi e molti altri episodi dello stesso tenore hanno alimentato un intenso dibattito nel mondo islamico, che ha visto diversi intellettuali levarsi contro la pena dell’apostasia. Tra questi, un posto di rilievo spetta senza dubbio all’egiziano Ahmad Subhî Mansûr (n. 1949). Nel presente contributo, analizziamo il suo testo "Hadd al-ridda", nel quale egli esamina il concetto di «apostasia» tanto da un punto di vista linguistico ed esegetico quanto in prospettiva storico-critica, soffermandosi preliminarmente sullo stesso termine hadd.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.