Filosofia del jazz e prassi della libertà: il titolo di questa sezione monografica del presente numero di “Scenari” si ripropone di indagare da un punto di vista filosofico – attraverso i contributi di alcuni specialisti italiani dell’argomento – una delle forme espressive, o se si vuole artistiche, più note, originali e importanti del Novecento. Là dove la specificazione “espressive, o se si vuole artistiche” è intesa a specificare già a questo livello puramente introduttivo come il jazz, fra le altre cose, sia un argomento interessante e importante per la filosofia, e nella fattispecie per l’estetica, in virtù della sua capacità di rimettere in discussione le nostre concezioni abituali della creazione e anche della fruizione artistica. Quanto al primo punto, cioè la creazione, è sufficiente pensare all’intreccio inestricabile, o se si vuole alla dialettica, tra composizione, esecuzione-interpretazione e continua reinvenzione del brano che ha luogo nel jazz e in un certo senso è costitutiva di esso, e che, per l’appunto, impone allo studioso di estetica di ripensare il modo netto con cui – in base alla tradizione europea colta sulla cui base si è orientata buona parte degli scritti di filosofia della musica della nostra tradizione – si è soliti invece distinguere e disgiungere tali momenti dell’esperienza musicale. Nel jazz, com’è noto, ciò ha luogo principalmente per via di una delle sue caratteristiche-chiave con le quali, anche a livello di senso comune e percezione diffusa nel pubblico, si è soliti persino identificare il jazz stesso, ovvero l’improvvisazione. Non è un caso, allora, che alcuni fra i contributi qui raccolti vertano proprio sull'improvvisazione, proponendone peraltro letture differenti che, ci auguriamo, potranno risultare intriganti e stimolanti per i lettori anche in virtù della loro diversità di prospettive e approcci, in uno spirito di sano pluralismo anch’esso molto adatto a un lavoro sul jazz. Quanto al secondo punto, poi, e cioè la fruizione, è cosa ben nota a qualunque appassionato di questo genere musicale, o più semplicemente a chiunque si sia recato a un concerto di jazz, come esso – volendo fare riferimento a due concetti elaborati da Walter Benjamin e Theodor W. Adorno, filosofi appartenenti alla cosiddetta Scuola di Francoforte e autori di alcuni fra i contributi all’estetica più importanti di tutto il Novecento – richieda all’ascoltatore un singolare mix di “ricezione nella distrazione” da un lato e “raccoglimento” dall’altro, cioè ascolto concentrato o persino “strutturale”. Vale a dire, per esemplificare in maniera concreta quest’idea, che tipicamente si può ascoltare il jazz dal vivo in club in cui non vige il silenzio assoluto che è tipico di un teatro o una sala da concerto per musica classica (sebbene jazzisti come Keith Jarrett, quando si esibiscono in tali luoghi, esigano questo tipo di atmosfera quasi sacrale) ma in cui, al contrario, si scambiano due chiacchiere, si beve del vino, si cena insieme, e dunque si assume un atteggiamento fruitivo parzialmente distratto dinanzi a una musica che però, soprattutto se i musicisti sul palco sono di buon livello o di ottimo livello (come accade spesso nel jazz), quanto alla sua qualità intrinseca inviterebbe al raccoglimento, o perlomeno a un ascolto concentrato. Raccoglimento e concentrazione che, d’altra parte, l’ascoltatore assume spesso invece quando si ascolta il jazz su disco, cd o altro supporto in un ambiente silenzioso, per esempio nella quiete casalinga che favorisce per l’appunto l’assunzione di un diverso atteggiamento fruitivo, anche dinanzi al medesimo brano della medesima jazz band ascoltata in parziale distrazione nel club. Il che, fra le altre cose, apre pure la questione del primato, nel jazz, della registrazione sonora tecnicamente riproducibile rispetto all’hic et nunc della performance live irripetibile, oppure viceversa. Una questione, quest’ultima, evidentemente ricca di implicazioni sotto il profilo tanto dell’ontologia quanto della fenomenologia della musica. Anche sotto il punto di vista della fruizione, così come sotto il punto di vista della creazione e dello scardinamento o quantomeno ripensamento della distinzione rigida dei ruoli fra compositore ed esecutore, il jazz appare dunque come una forma espressiva singolarmente “borderline”, e quanto mai interessante pertanto per essere indagata anche su un piano teorico e, nella fattispecie, filosofico. Indagine teorica che poi, qualora si voglia estendere lo sguardo oltre il confine di ciò che è strettamente musicale e si voglia considerare quanto la musica (al pari di ogni altra forma espressiva e culturale prodotta dall’essere umano) viva nella società, sia parte della società, e quindi sia influenzata dalla società e al contempo la influenzi, può facilmente andare a sfociare in un’investigazione dei rapporti fra jazz, etica, politica e cambiamenti sociali. È precisamente questa l’ottica adottata nel secondo blocco di questo fascicolo, volto a indagare varie connessioni del jazz a movimenti di rivendicazione di libertà ed emancipazione attraverso il Novecento. Alla luce di tutto ciò, la chiave di lettura unitaria (ma di un’unità non ottenuta coercitivamente a spese della molteplicità, anzi) che è stata adottata nel presente fascicolo monografico di “Scenari” sul jazz è quella riassumibile, come si diceva, nel concetto di “prassi della libertà”. Là dove l’enfasi sulla dimensione della prassi vuol significare qui il fatto che un insegnamento non secondario che si trae dal jazz sta appunto nella necessità di tradurre in processo operativo e condiviso (comunicativo) le articolazioni della forma e, nel caso specifico, del materiale musicale. Se il jazz è, iconicamente, improvvisazione non lo si deve a una chimerica indifferenza per grammatiche e norme, ma per la capacità di rendere azione regole che mostrano di avere un significato anche in territori inattesi. Come a dire che la libertà non è, nel jazz paradigmaticamente, uno stato ideale di sospensione di cui godere, ma una pratica travagliata attraverso la quale mettersi in caccia in virtù, anziché a dispetto, delle regole stesse che rendono comunicabile anche il gesto apparentemente più arbitrario. Un esercizio dialettico di liberazione, come si potrebbe anche dire, proprio guardando al contempo ai due versanti su cui, come si diceva, si dispongono gli interventi che seguono: quello “astratto” dello statuto del jazz e quello “concreto” dell’impasto etico-sociale che vi si esprime.
Massimo Donà, Giovanni Matteucci, Stefano Marino (2018). Filosofia del jazz e prassi della libertà. Milano-Udine : Mimesis.
Filosofia del jazz e prassi della libertà
Giovanni Matteucci
;Stefano Marino
2018
Abstract
Filosofia del jazz e prassi della libertà: il titolo di questa sezione monografica del presente numero di “Scenari” si ripropone di indagare da un punto di vista filosofico – attraverso i contributi di alcuni specialisti italiani dell’argomento – una delle forme espressive, o se si vuole artistiche, più note, originali e importanti del Novecento. Là dove la specificazione “espressive, o se si vuole artistiche” è intesa a specificare già a questo livello puramente introduttivo come il jazz, fra le altre cose, sia un argomento interessante e importante per la filosofia, e nella fattispecie per l’estetica, in virtù della sua capacità di rimettere in discussione le nostre concezioni abituali della creazione e anche della fruizione artistica. Quanto al primo punto, cioè la creazione, è sufficiente pensare all’intreccio inestricabile, o se si vuole alla dialettica, tra composizione, esecuzione-interpretazione e continua reinvenzione del brano che ha luogo nel jazz e in un certo senso è costitutiva di esso, e che, per l’appunto, impone allo studioso di estetica di ripensare il modo netto con cui – in base alla tradizione europea colta sulla cui base si è orientata buona parte degli scritti di filosofia della musica della nostra tradizione – si è soliti invece distinguere e disgiungere tali momenti dell’esperienza musicale. Nel jazz, com’è noto, ciò ha luogo principalmente per via di una delle sue caratteristiche-chiave con le quali, anche a livello di senso comune e percezione diffusa nel pubblico, si è soliti persino identificare il jazz stesso, ovvero l’improvvisazione. Non è un caso, allora, che alcuni fra i contributi qui raccolti vertano proprio sull'improvvisazione, proponendone peraltro letture differenti che, ci auguriamo, potranno risultare intriganti e stimolanti per i lettori anche in virtù della loro diversità di prospettive e approcci, in uno spirito di sano pluralismo anch’esso molto adatto a un lavoro sul jazz. Quanto al secondo punto, poi, e cioè la fruizione, è cosa ben nota a qualunque appassionato di questo genere musicale, o più semplicemente a chiunque si sia recato a un concerto di jazz, come esso – volendo fare riferimento a due concetti elaborati da Walter Benjamin e Theodor W. Adorno, filosofi appartenenti alla cosiddetta Scuola di Francoforte e autori di alcuni fra i contributi all’estetica più importanti di tutto il Novecento – richieda all’ascoltatore un singolare mix di “ricezione nella distrazione” da un lato e “raccoglimento” dall’altro, cioè ascolto concentrato o persino “strutturale”. Vale a dire, per esemplificare in maniera concreta quest’idea, che tipicamente si può ascoltare il jazz dal vivo in club in cui non vige il silenzio assoluto che è tipico di un teatro o una sala da concerto per musica classica (sebbene jazzisti come Keith Jarrett, quando si esibiscono in tali luoghi, esigano questo tipo di atmosfera quasi sacrale) ma in cui, al contrario, si scambiano due chiacchiere, si beve del vino, si cena insieme, e dunque si assume un atteggiamento fruitivo parzialmente distratto dinanzi a una musica che però, soprattutto se i musicisti sul palco sono di buon livello o di ottimo livello (come accade spesso nel jazz), quanto alla sua qualità intrinseca inviterebbe al raccoglimento, o perlomeno a un ascolto concentrato. Raccoglimento e concentrazione che, d’altra parte, l’ascoltatore assume spesso invece quando si ascolta il jazz su disco, cd o altro supporto in un ambiente silenzioso, per esempio nella quiete casalinga che favorisce per l’appunto l’assunzione di un diverso atteggiamento fruitivo, anche dinanzi al medesimo brano della medesima jazz band ascoltata in parziale distrazione nel club. Il che, fra le altre cose, apre pure la questione del primato, nel jazz, della registrazione sonora tecnicamente riproducibile rispetto all’hic et nunc della performance live irripetibile, oppure viceversa. Una questione, quest’ultima, evidentemente ricca di implicazioni sotto il profilo tanto dell’ontologia quanto della fenomenologia della musica. Anche sotto il punto di vista della fruizione, così come sotto il punto di vista della creazione e dello scardinamento o quantomeno ripensamento della distinzione rigida dei ruoli fra compositore ed esecutore, il jazz appare dunque come una forma espressiva singolarmente “borderline”, e quanto mai interessante pertanto per essere indagata anche su un piano teorico e, nella fattispecie, filosofico. Indagine teorica che poi, qualora si voglia estendere lo sguardo oltre il confine di ciò che è strettamente musicale e si voglia considerare quanto la musica (al pari di ogni altra forma espressiva e culturale prodotta dall’essere umano) viva nella società, sia parte della società, e quindi sia influenzata dalla società e al contempo la influenzi, può facilmente andare a sfociare in un’investigazione dei rapporti fra jazz, etica, politica e cambiamenti sociali. È precisamente questa l’ottica adottata nel secondo blocco di questo fascicolo, volto a indagare varie connessioni del jazz a movimenti di rivendicazione di libertà ed emancipazione attraverso il Novecento. Alla luce di tutto ciò, la chiave di lettura unitaria (ma di un’unità non ottenuta coercitivamente a spese della molteplicità, anzi) che è stata adottata nel presente fascicolo monografico di “Scenari” sul jazz è quella riassumibile, come si diceva, nel concetto di “prassi della libertà”. Là dove l’enfasi sulla dimensione della prassi vuol significare qui il fatto che un insegnamento non secondario che si trae dal jazz sta appunto nella necessità di tradurre in processo operativo e condiviso (comunicativo) le articolazioni della forma e, nel caso specifico, del materiale musicale. Se il jazz è, iconicamente, improvvisazione non lo si deve a una chimerica indifferenza per grammatiche e norme, ma per la capacità di rendere azione regole che mostrano di avere un significato anche in territori inattesi. Come a dire che la libertà non è, nel jazz paradigmaticamente, uno stato ideale di sospensione di cui godere, ma una pratica travagliata attraverso la quale mettersi in caccia in virtù, anziché a dispetto, delle regole stesse che rendono comunicabile anche il gesto apparentemente più arbitrario. Un esercizio dialettico di liberazione, come si potrebbe anche dire, proprio guardando al contempo ai due versanti su cui, come si diceva, si dispongono gli interventi che seguono: quello “astratto” dello statuto del jazz e quello “concreto” dell’impasto etico-sociale che vi si esprime.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.