Le storie di vita (life story/life-history) e le autobiografie rappresentano per le discipline demo-etno-antropologiche un metodo e un oggetto di ricerca che è stato sottoposto a numerose critiche nel corso della storia della disciplina. Questo testo, attraverso una analisi storica, indaga come l’antropologia americana abbia formalizzato lo statuto di storie di vita e auto-biografie e abbia tentato di rispondere ad alcuni quesiti. La prima domanda, in sintonia con il dibattito post-strutturalista e post-moderno, riguarda il pubblico di antropologi come lettori di testi. Quale può essere oggi l’utilità di un testo che tenta di ricostruire l’archeologia del metodo e del genere biografico in antropologia? E soprattutto quale, se esiste, il pubblico ideale di un siffatto testo? Le storie di vita e le autobiografie hanno costituito, nel pensiero antropologico, una sorta di “non detto”, sono state per lungo tempo considerate un fardello pesante, una imbarazzante rimanenza lasciata da coloro che non si erano voluti conformare ai canoni accademici o che, accanto a testi “canonicamente corretti”, avevano deciso di compiere audaci sperimentazioni metodologiche. Di queste storie non si sapeva che farsene, perché la maggior parte di esse non teneva conto dei criteri di scientificità e autorevolezza elaborati da una disciplina in via di formazione. La seconda domanda riguarda la pratica etnografica; come si sono istituite le pratiche della ricerca etnografica? Chi le ha formalizzate, quando e con quali modalità? Indagare sulla nascita, sulla formazione e il “monitoraggio” delle storie di vita e delle autobiografie permette di delineare quel legame profondo e inscindibile tra le teorie antropologiche e le pratiche della ricerca di campo. Infine la terza, e forse più ambivalente e complessa domanda riguarda l’identità dell’antropologia e direttamente coinvolge l’antropologo in prima persona, il suo ruolo e il suo impegno etico. Che tipo di disciplina si viene scoprendo andando a scavare e rinvenendo “testimonianze altre”, documenti che a tutt’oggi non rientrano nella storia ufficiale dell’antropologia, di quella italiana in particolare? Che tipologia di fonti l’antropologo utilizza per interpretare queste “storie altre”, ancora solo superficialmente indagate dagli stessi antropologi? I confini disciplinari si allargano, lo stesso concetto di confine risulta poco adatto, non più conforme alla realtà della disciplina. Le domande possono divenire intriganti, perfino fastidiose per coloro che temono l’interdisciplinarietà, che la considerano una pericolosa contaminazione in una disciplina che, seppur oggi ben istituzionalizzata, non deve perdere di vista le proprie specificità: dove finisce allora l’antropologia? Dove tracciare tali confini? Sono realmente mutate le modalità di praticare tale disciplina nel nostro paese?
Z.Franceschi (2006). Le storie di vita. Percorsi nella storia dell’antropologia americana. BOLOGNA : Clueb.
Le storie di vita. Percorsi nella storia dell’antropologia americana
FRANCESCHI, ZELDA ALICE
2006
Abstract
Le storie di vita (life story/life-history) e le autobiografie rappresentano per le discipline demo-etno-antropologiche un metodo e un oggetto di ricerca che è stato sottoposto a numerose critiche nel corso della storia della disciplina. Questo testo, attraverso una analisi storica, indaga come l’antropologia americana abbia formalizzato lo statuto di storie di vita e auto-biografie e abbia tentato di rispondere ad alcuni quesiti. La prima domanda, in sintonia con il dibattito post-strutturalista e post-moderno, riguarda il pubblico di antropologi come lettori di testi. Quale può essere oggi l’utilità di un testo che tenta di ricostruire l’archeologia del metodo e del genere biografico in antropologia? E soprattutto quale, se esiste, il pubblico ideale di un siffatto testo? Le storie di vita e le autobiografie hanno costituito, nel pensiero antropologico, una sorta di “non detto”, sono state per lungo tempo considerate un fardello pesante, una imbarazzante rimanenza lasciata da coloro che non si erano voluti conformare ai canoni accademici o che, accanto a testi “canonicamente corretti”, avevano deciso di compiere audaci sperimentazioni metodologiche. Di queste storie non si sapeva che farsene, perché la maggior parte di esse non teneva conto dei criteri di scientificità e autorevolezza elaborati da una disciplina in via di formazione. La seconda domanda riguarda la pratica etnografica; come si sono istituite le pratiche della ricerca etnografica? Chi le ha formalizzate, quando e con quali modalità? Indagare sulla nascita, sulla formazione e il “monitoraggio” delle storie di vita e delle autobiografie permette di delineare quel legame profondo e inscindibile tra le teorie antropologiche e le pratiche della ricerca di campo. Infine la terza, e forse più ambivalente e complessa domanda riguarda l’identità dell’antropologia e direttamente coinvolge l’antropologo in prima persona, il suo ruolo e il suo impegno etico. Che tipo di disciplina si viene scoprendo andando a scavare e rinvenendo “testimonianze altre”, documenti che a tutt’oggi non rientrano nella storia ufficiale dell’antropologia, di quella italiana in particolare? Che tipologia di fonti l’antropologo utilizza per interpretare queste “storie altre”, ancora solo superficialmente indagate dagli stessi antropologi? I confini disciplinari si allargano, lo stesso concetto di confine risulta poco adatto, non più conforme alla realtà della disciplina. Le domande possono divenire intriganti, perfino fastidiose per coloro che temono l’interdisciplinarietà, che la considerano una pericolosa contaminazione in una disciplina che, seppur oggi ben istituzionalizzata, non deve perdere di vista le proprie specificità: dove finisce allora l’antropologia? Dove tracciare tali confini? Sono realmente mutate le modalità di praticare tale disciplina nel nostro paese?I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.