Il saggio esamina la carriera di Francesca Bertini come studio di caso utile a impostare una riflessione più generale intorno alla problematica relazione esistente tra divismo e autorialità nell'esperienza di tante donne cineaste del periodo muto. La posizione di Francesca Bertini nella storia del cinema delle donne appare singolare sotto diversi aspetti, in particolare per quanto riguarda il suo contraddittorio statuto in quanto Diva, la creatura sublime e inimitabile di cui divenne l'emblema nel cinema muto italiano. Ora, se da un lato il suo formidabile successo è quanto ha permesso alla Bertini di conquistare una posizione di primo piano nella storia del cinema tradizionale, facilitando lo stesso suo accreditamento come regista o co-regista di Assunta Spina (1915) , al tempo stesso esso è però anche all'origine del sentimento di distanza che la sua figura può indurre nella storica femminista, in quanto vera e propria icona che con la sua luce ha finito per oscurare l’esistenza nel cinema muto italiano di tante altre donne influenti e produttive. La peculiare ambiguità della figura della Diva si rivela con evidenza nel paradosso di una donna che appare bensì potente e carismatica, ma la cui “aura” dipende interamente dalla propria identificazione con i più triti stereotipi della letteratura maschile, rappresenta senza dubbio un test esemplare per la storiografia femminista, una sfida a sviluppare un quadro interpretativo che permetta di innescare un processo di valorizzazione femminista anche in rapporto a figure che, come la sua, potrebbero apparire in una tale ottica ambigue o disturbanti. L'articolo tenta di svolgere questo compito proponendo un'analisi basata su un concetto di recitazione come iniziativa (o agency), volto a ripensare il ruolo dell’interpretazione in relazione alla regia, attraverso l’ipotesi di un tipo di recitazione capace di collocare il regista in una posizione vicaria o comunque subordinata rispetto all’attrice. L'analisi si conclude con una discussione del problematico rapporto esistente tra le "poche visibili" e le "molte invisibili", elemento decisivo in qualsiasi tentativo di storiografia femminista.
M. Dall'Asta (2008). Il singolare multiplo: Francesca Bertini attrice e regista. BOLOGNA : Cineteca di Bologna.
Il singolare multiplo: Francesca Bertini attrice e regista
DALL'ASTA, MONICA
2008
Abstract
Il saggio esamina la carriera di Francesca Bertini come studio di caso utile a impostare una riflessione più generale intorno alla problematica relazione esistente tra divismo e autorialità nell'esperienza di tante donne cineaste del periodo muto. La posizione di Francesca Bertini nella storia del cinema delle donne appare singolare sotto diversi aspetti, in particolare per quanto riguarda il suo contraddittorio statuto in quanto Diva, la creatura sublime e inimitabile di cui divenne l'emblema nel cinema muto italiano. Ora, se da un lato il suo formidabile successo è quanto ha permesso alla Bertini di conquistare una posizione di primo piano nella storia del cinema tradizionale, facilitando lo stesso suo accreditamento come regista o co-regista di Assunta Spina (1915) , al tempo stesso esso è però anche all'origine del sentimento di distanza che la sua figura può indurre nella storica femminista, in quanto vera e propria icona che con la sua luce ha finito per oscurare l’esistenza nel cinema muto italiano di tante altre donne influenti e produttive. La peculiare ambiguità della figura della Diva si rivela con evidenza nel paradosso di una donna che appare bensì potente e carismatica, ma la cui “aura” dipende interamente dalla propria identificazione con i più triti stereotipi della letteratura maschile, rappresenta senza dubbio un test esemplare per la storiografia femminista, una sfida a sviluppare un quadro interpretativo che permetta di innescare un processo di valorizzazione femminista anche in rapporto a figure che, come la sua, potrebbero apparire in una tale ottica ambigue o disturbanti. L'articolo tenta di svolgere questo compito proponendo un'analisi basata su un concetto di recitazione come iniziativa (o agency), volto a ripensare il ruolo dell’interpretazione in relazione alla regia, attraverso l’ipotesi di un tipo di recitazione capace di collocare il regista in una posizione vicaria o comunque subordinata rispetto all’attrice. L'analisi si conclude con una discussione del problematico rapporto esistente tra le "poche visibili" e le "molte invisibili", elemento decisivo in qualsiasi tentativo di storiografia femminista.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.