Quelli che si è soliti annoverare fra i primi, consistenti esperimenti di storiografia della danza risalgono, in Italia, alla seconda metà del Novecento e trovano radicamento nel terreno della critica militante. Certamente fra i pochi, nel panorama culturale coevo, a investire conoscenze e competenze in favore di un argomento irreparabilmente poco serio come la danza («serio spettacolo non serio», scrisse in proposito Alberto Savinio), oltre che i soli, forse, desiderosi di sistematizzare, nobilitandolo, il progressivo stratificarsi di visioni, memorie e convincimenti estetici, molti critici, specie a partire dagli Anni Sessanta, danno alle stampe delle vere e proprie “storie della danza”. L’intersezione disciplinare sottesa a questo fenomeno, nonché riverberata dall’esperienza eccezionale dell’Enciclopedia dello Spettacolo (autentica “palestra” per alcune delle più note firme della critica di danza italiana, sotto la guida illuminata di Fedele D’Amico), non è stata finora oggetto di studi specifici che ne esplicitassero debitamente contesti e dinamiche costitutive. Una simile lacuna si lega certamente all’assenza di contributi che, a loro volta, indaghino i processi in virtù dei quali, ben prima della comparsa delle cosiddette “storie”, la danza diviene oggetto di un discorso critico costante e continuativo, vale a dire da quando, negli Anni Trenta, alcune riviste di argomento teatrale (senza contare il discorso, certo diverso, sulla stampa quotidiana) iniziano a riservarvi uno spazio fisso. Di volta in volta campi di battaglia per opposte fazioni artistiche, casse di risonanza per l’operato di agguerriti intellettuali e uomini di teatro, sismografi dei mutamenti più profondi, e, specie nel Dopoguerra, incubatrici di una proto-storiografia della danza, le riviste di settore convocano l’attitudine del critico militante e quella dello storico, innescando una complessa reazione fra sguardi, tempi e progettualità diversi. Abbracciando un arco temporale che, dal periodo fra le due guerre mondiali, si protende fino agli Anni Cinquanta, l'articolo – campionando e contestualizzando alcune modalità di discorsivizzazione del fenomeno coreico sia all’interno di riviste teatrali come «Comoedia», «Scenario» e «Sipario», sia nelle prime, battagliere e sovente isolate pubblicazioni esclusivamente dedicate alla danza (come «Balletto», pubblicata fra il 1955 e il 1960) – mostra come i periodici di settore siano nel tempo divenuti terreno germinativo per processi molteplici e talvolta contraddittori, ma, nel complesso, tendenti allo sviluppo di un discorso sulla danza che, certamente connotato dall’aggancio alla dimensione delle pratiche, si aggruma altresì attorno alla definizione, in sede critico-teorica, di una possibile identità della danza italiana, e, non secondariamente, di un linguaggio attraverso il quale, seppur tra prestiti e sbavature, riuscire (letteralmente) a dire la danza stessa.
Giulia Taddeo (2018). Il progetto della storia: le riviste come laboratorio di una storiografia italiana della danza,. Bologna : Dipartimento delle Arti e ALMADL.
Il progetto della storia: le riviste come laboratorio di una storiografia italiana della danza,
Giulia Taddeo
2018
Abstract
Quelli che si è soliti annoverare fra i primi, consistenti esperimenti di storiografia della danza risalgono, in Italia, alla seconda metà del Novecento e trovano radicamento nel terreno della critica militante. Certamente fra i pochi, nel panorama culturale coevo, a investire conoscenze e competenze in favore di un argomento irreparabilmente poco serio come la danza («serio spettacolo non serio», scrisse in proposito Alberto Savinio), oltre che i soli, forse, desiderosi di sistematizzare, nobilitandolo, il progressivo stratificarsi di visioni, memorie e convincimenti estetici, molti critici, specie a partire dagli Anni Sessanta, danno alle stampe delle vere e proprie “storie della danza”. L’intersezione disciplinare sottesa a questo fenomeno, nonché riverberata dall’esperienza eccezionale dell’Enciclopedia dello Spettacolo (autentica “palestra” per alcune delle più note firme della critica di danza italiana, sotto la guida illuminata di Fedele D’Amico), non è stata finora oggetto di studi specifici che ne esplicitassero debitamente contesti e dinamiche costitutive. Una simile lacuna si lega certamente all’assenza di contributi che, a loro volta, indaghino i processi in virtù dei quali, ben prima della comparsa delle cosiddette “storie”, la danza diviene oggetto di un discorso critico costante e continuativo, vale a dire da quando, negli Anni Trenta, alcune riviste di argomento teatrale (senza contare il discorso, certo diverso, sulla stampa quotidiana) iniziano a riservarvi uno spazio fisso. Di volta in volta campi di battaglia per opposte fazioni artistiche, casse di risonanza per l’operato di agguerriti intellettuali e uomini di teatro, sismografi dei mutamenti più profondi, e, specie nel Dopoguerra, incubatrici di una proto-storiografia della danza, le riviste di settore convocano l’attitudine del critico militante e quella dello storico, innescando una complessa reazione fra sguardi, tempi e progettualità diversi. Abbracciando un arco temporale che, dal periodo fra le due guerre mondiali, si protende fino agli Anni Cinquanta, l'articolo – campionando e contestualizzando alcune modalità di discorsivizzazione del fenomeno coreico sia all’interno di riviste teatrali come «Comoedia», «Scenario» e «Sipario», sia nelle prime, battagliere e sovente isolate pubblicazioni esclusivamente dedicate alla danza (come «Balletto», pubblicata fra il 1955 e il 1960) – mostra come i periodici di settore siano nel tempo divenuti terreno germinativo per processi molteplici e talvolta contraddittori, ma, nel complesso, tendenti allo sviluppo di un discorso sulla danza che, certamente connotato dall’aggancio alla dimensione delle pratiche, si aggruma altresì attorno alla definizione, in sede critico-teorica, di una possibile identità della danza italiana, e, non secondariamente, di un linguaggio attraverso il quale, seppur tra prestiti e sbavature, riuscire (letteralmente) a dire la danza stessa.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.