Dagherrotipi, stampe e negativi fotografici, gigantografie, cartelloni, insegne luminose, specchi, schermi, vetrine riflettenti nell’incerto lume dell’imbrunire, opacità, trasparenza, anamorfosi: nel corso degli ultimi due secoli il visuale sembra avere sostituito il reale, in nome di un delirio ormai quasi globalizzato di onnipotenza panottica. Dal subatomico all’interstellare, tutto sembra offrirsi al nostro bulimico occhio, mentre il soggetto umano si scopre scisso, guardato, disperso in un oceano di sguardo che gli preesiste e, quasi senza avvedersene, lo inghiotte. Si potrebbero considerare i saggi raccolti in questo volume come un percorso, arbitrario e rabdomantico, nell’infinito bosco delle storie generate dall’incontro tra affabulazione e immagine. È stato detto che l’invenzione della fotografia ha causato una discontinuità radicale nella storia, paragonabile all’apparizione dell’alfabeto: certo, sin dall’etimologia del suo nome, la fotografia – luce che scrive – si è confrontata con il linguaggio e con il racconto, provocando le meno prevedibili sovversioni. In alcuni testi, sorprendenti e irregolari, pubblicati tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del secolo scorso – Alvaro, Nabokov, Perec e Celati, i nomi dei narratori prescelti – gli strumenti dell’ottica intersecano l’antica arte del raccontare. Il lettore del terzo millennio sa molto bene (è forse l’unica cosa che sa) quanto qualsiasi certezza, qualsiasi generalizzazione sia del tutto fuori luogo. Del resto, per citare le parole di Luigi Ghirri, un fotografo di cui molto qui si parla: «la fotografia si esplica sempre all’interno di un dualismo perfetto. Se uno ci pensa, nella fotografia c’è il negativo e il positivo. È un rapporto tra la luce e il buio. È un giusto equilibrio tra quello che c’è da vedere e quello che non deve essere visto».

L'ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari.

Ferdinando Amigoni
2018

Abstract

Dagherrotipi, stampe e negativi fotografici, gigantografie, cartelloni, insegne luminose, specchi, schermi, vetrine riflettenti nell’incerto lume dell’imbrunire, opacità, trasparenza, anamorfosi: nel corso degli ultimi due secoli il visuale sembra avere sostituito il reale, in nome di un delirio ormai quasi globalizzato di onnipotenza panottica. Dal subatomico all’interstellare, tutto sembra offrirsi al nostro bulimico occhio, mentre il soggetto umano si scopre scisso, guardato, disperso in un oceano di sguardo che gli preesiste e, quasi senza avvedersene, lo inghiotte. Si potrebbero considerare i saggi raccolti in questo volume come un percorso, arbitrario e rabdomantico, nell’infinito bosco delle storie generate dall’incontro tra affabulazione e immagine. È stato detto che l’invenzione della fotografia ha causato una discontinuità radicale nella storia, paragonabile all’apparizione dell’alfabeto: certo, sin dall’etimologia del suo nome, la fotografia – luce che scrive – si è confrontata con il linguaggio e con il racconto, provocando le meno prevedibili sovversioni. In alcuni testi, sorprendenti e irregolari, pubblicati tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del secolo scorso – Alvaro, Nabokov, Perec e Celati, i nomi dei narratori prescelti – gli strumenti dell’ottica intersecano l’antica arte del raccontare. Il lettore del terzo millennio sa molto bene (è forse l’unica cosa che sa) quanto qualsiasi certezza, qualsiasi generalizzazione sia del tutto fuori luogo. Del resto, per citare le parole di Luigi Ghirri, un fotografo di cui molto qui si parla: «la fotografia si esplica sempre all’interno di un dualismo perfetto. Se uno ci pensa, nella fotografia c’è il negativo e il positivo. È un rapporto tra la luce e il buio. È un giusto equilibrio tra quello che c’è da vedere e quello che non deve essere visto».
2018
260
9788822901835
Ferdinando Amigoni
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