Il saggio ricostruisce la storia dell'elezione del capo dello Stato, dal dibattito in sede Costituente sino all'elezione di Mattarella nel 2015. Per quanto ogni elezione disponga di una propria storia, inevitabilmente debitrice del contesto politico in cui si è svolta, dei protagonisti che l’hanno caratterizzata e dei rapporti che si sono venuti a determinare tra i partiti nello specifico frangente delle votazioni, l'autore - che dopo aver fornito una categorizzazione delle varie elezioni - individua tre costanti che hanno caratterizzato le dodici elezioni del presidente della Repubblica dal 1948 a oggi. La prima è che molto raramente il favorito della vigilia viene eletto, da cui deriva il detto secondo cui anche per il Quirinale chi entra papa rischia di uscire cardinale. La logica dell’elezione è di natura essenzialmente compromissoria e questo ha fatto sì che soltanto a due riprese la prima candidatura sia stata coronata da successo immediato (Cossiga, 1985 e Ciampi, 1999), mentre in tutti gli altri casi i candidati indicati in prima istanza dai partiti sono stati eliminati o eletti faticosamente (Segni, 1962) dopo svariati scrutini e divisioni interne. Nella maggior parte dei casi il candidato del partito di maggioranza è stato bocciato e sono state necessarie ricomposizioni e accordi su nuovi candidati. Un’esperienza che nelle ultime elezioni ha spesso suggerito di «proteggere» il candidato gradito alla coalizione di maggioranza, tenendolo celato sino al quarto scrutinio, strategia adottata dal centro-sinistra sia nel 2006 con Giorgio Napolitano che nel 2015 con Sergio Mattarella. La seconda caratteristica è che ogni elezione ha un king maker: è cioè frutto della regia sapiente o dell’intuizione di un leader di partito, che si dimostra capace di imporre il proprio candidato alla maggioranza dell’Assemblea: così Nenni è stato il king maker dell’elezione di Gronchi nel 1955, Moro di Saragat nel 1971, De Mita di Cossiga nel 1985, il tandem D’Alema-Berlusconi di Ciampi nel 1999, Prodi di Napolitano nel 2006, mentre Renzi nel 2015 lo è stato per Mattarella. L’ultimo aspetto – che è probabilmente assurto a regola aurea dell’elezione – è la prassi che tradizionalmente impedisce l’accesso al Quirinale a un leader di partito. Nel corso della «Repubblica dei partiti» a farne le spese sono stati a più riprese i due cavalli di razza democristiani, Fanfani e Moro, e la consuetudine è stata confermata anche nella fase di crisi finale della «Prima» Repubblica, quando nel 1992 sono state scartate, una dopo l’altra, le candidature di Craxi, Andreotti e Forlani per fare spazio a quella politicamente meno ingombrante di Oscar Luigi Scalfaro. Sotto questa luce si poteva pensare che la «Seconda» Repubblica, fondata sul bipolarismo e la personalizzazione dei partiti, avrebbe accompagnato l’evoluzione informale della Carta e l’estensione delle prerogative presidenziali che si è progressivamente determinata, con l’elezione di leader di partito al Colle. Una tesi che nel 1999 parve accreditarsi con la candidatura del leader del Ppi, Franco Marini, al Quirinale. Ritenuta troppo ingombrante dagli stessi partiti della coalizione di centro-sinistra e osteggiata dal leader del centro-destra, Berlusconi, essa venne tuttavia rapidamente accantonata e gli fu preferito il profilo super partes e internazionalmente più autorevole di Carlo Azeglio Ciampi . Le elezioni successive avrebbero confermato questa prassi, bocciando dapprima la candidatura di D’Alema (2006) e, sette anni dopo, in circostanze politicamente più burrascose, nuovamente quella di Marini e soprattutto quella del padre nobile del Pd, Romano Prodi (2013). Nonostante l’estensione progressiva dei poteri della presidenza, il mantenimento di una ostilità dell’Assemblea verso le ambizioni di Quirinale dei leader di partito conferma probabilmente, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, che il potere di garanzia resta ancora il parametro di legittimazione più forte della figura del presidente della Repubblica.
Riccardo Brizzi (2018). Storia dell'elezione del capo dello Stato. Bologna : Il Mulino.
Storia dell'elezione del capo dello Stato
Riccardo Brizzi
2018
Abstract
Il saggio ricostruisce la storia dell'elezione del capo dello Stato, dal dibattito in sede Costituente sino all'elezione di Mattarella nel 2015. Per quanto ogni elezione disponga di una propria storia, inevitabilmente debitrice del contesto politico in cui si è svolta, dei protagonisti che l’hanno caratterizzata e dei rapporti che si sono venuti a determinare tra i partiti nello specifico frangente delle votazioni, l'autore - che dopo aver fornito una categorizzazione delle varie elezioni - individua tre costanti che hanno caratterizzato le dodici elezioni del presidente della Repubblica dal 1948 a oggi. La prima è che molto raramente il favorito della vigilia viene eletto, da cui deriva il detto secondo cui anche per il Quirinale chi entra papa rischia di uscire cardinale. La logica dell’elezione è di natura essenzialmente compromissoria e questo ha fatto sì che soltanto a due riprese la prima candidatura sia stata coronata da successo immediato (Cossiga, 1985 e Ciampi, 1999), mentre in tutti gli altri casi i candidati indicati in prima istanza dai partiti sono stati eliminati o eletti faticosamente (Segni, 1962) dopo svariati scrutini e divisioni interne. Nella maggior parte dei casi il candidato del partito di maggioranza è stato bocciato e sono state necessarie ricomposizioni e accordi su nuovi candidati. Un’esperienza che nelle ultime elezioni ha spesso suggerito di «proteggere» il candidato gradito alla coalizione di maggioranza, tenendolo celato sino al quarto scrutinio, strategia adottata dal centro-sinistra sia nel 2006 con Giorgio Napolitano che nel 2015 con Sergio Mattarella. La seconda caratteristica è che ogni elezione ha un king maker: è cioè frutto della regia sapiente o dell’intuizione di un leader di partito, che si dimostra capace di imporre il proprio candidato alla maggioranza dell’Assemblea: così Nenni è stato il king maker dell’elezione di Gronchi nel 1955, Moro di Saragat nel 1971, De Mita di Cossiga nel 1985, il tandem D’Alema-Berlusconi di Ciampi nel 1999, Prodi di Napolitano nel 2006, mentre Renzi nel 2015 lo è stato per Mattarella. L’ultimo aspetto – che è probabilmente assurto a regola aurea dell’elezione – è la prassi che tradizionalmente impedisce l’accesso al Quirinale a un leader di partito. Nel corso della «Repubblica dei partiti» a farne le spese sono stati a più riprese i due cavalli di razza democristiani, Fanfani e Moro, e la consuetudine è stata confermata anche nella fase di crisi finale della «Prima» Repubblica, quando nel 1992 sono state scartate, una dopo l’altra, le candidature di Craxi, Andreotti e Forlani per fare spazio a quella politicamente meno ingombrante di Oscar Luigi Scalfaro. Sotto questa luce si poteva pensare che la «Seconda» Repubblica, fondata sul bipolarismo e la personalizzazione dei partiti, avrebbe accompagnato l’evoluzione informale della Carta e l’estensione delle prerogative presidenziali che si è progressivamente determinata, con l’elezione di leader di partito al Colle. Una tesi che nel 1999 parve accreditarsi con la candidatura del leader del Ppi, Franco Marini, al Quirinale. Ritenuta troppo ingombrante dagli stessi partiti della coalizione di centro-sinistra e osteggiata dal leader del centro-destra, Berlusconi, essa venne tuttavia rapidamente accantonata e gli fu preferito il profilo super partes e internazionalmente più autorevole di Carlo Azeglio Ciampi . Le elezioni successive avrebbero confermato questa prassi, bocciando dapprima la candidatura di D’Alema (2006) e, sette anni dopo, in circostanze politicamente più burrascose, nuovamente quella di Marini e soprattutto quella del padre nobile del Pd, Romano Prodi (2013). Nonostante l’estensione progressiva dei poteri della presidenza, il mantenimento di una ostilità dell’Assemblea verso le ambizioni di Quirinale dei leader di partito conferma probabilmente, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, che il potere di garanzia resta ancora il parametro di legittimazione più forte della figura del presidente della Repubblica.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.