L’oratore Licurgo riferisce che gli Spartani avevano stabilito per legge di far recitare le elegie di Tirteo, davanti alla tenda del re, prima di una battaglia perché era questo il modo più efficace per infondere nell’esercito il desiderio di morire per la patria. “Bella la morte per l’uomo che cade in prima fila / da valoroso, quando combatte per la sua patria” – leggiamo nei versi di Tirteo – e prima ancora in Omero “Su, combattete contro le navi; e chi fra di voi / ferito o colpito ha da trovare destino di morte, / muoia, bello per lui, difendendo la patria, / morire”. In modo non del tutto dissimile, Goffredo Mameli, noto come il ‘Tirteo’ del nostro Risorgimento, ha spesso invocato nei suoi versi la bellezza eroica del morire per la patria, nell’invito a serrare i ranghi, in prima fila, e a resistere fino alla morte per il bene comune. Nella guerra, nel clamore della battaglia l’uomo antico conquista il proprio ruolo nel mondo, afferma la propria leadership e si conforma all’imperativo categorico del competere e vincere: essere il migliore sempre e primeggiare sugli altri. Il valore e l’eroismo spinto fino al sacrificio della vita – per affermare il proprio kleos combattendo nel nome di un bene comune, quello del ghenos o quello della terra dei padri – è un’etica di lunga durata nella nostra tradizione culturale; e ancora alle soglie della prima guerra mondiale la guerra è sentita come esperienza decisiva e formativa nella vita di un uomo. «La guerra non è che un duello su vasta scala», affermava von Clausewitz; e in nome di questo desiderio di superare l’avversario nel duello un’intera generazione – spesso educata attraverso le letture dei classici – si scontra con l’improvvisa inattualità della guerra negli orrori della trincea della prima guerra mondiale, quando il duello si trasforma in macello e sulle carni degli uomini piovono carni di altri uomini morti, e danno cibo ai topi come ora scrive Jan Echenoz . La fine dell’illusione della guerra eroica non è priva di conseguenza. Con puntiglio matematico, Robert Musil ne potrà subito trarre la conclusione paradossale che non sarà più possibile nemmeno pensare l’eroismo, perché la «fatica muscolare di un cittadino che attende tranquillamente ai fatti suoi per tutta la giornata è assai maggiore di quella di un atleta che sollevi una volta al giorno un grossissimo […]; e allo stesso modo si sa che la somma collettiva delle fatiche spicciole quotidiane, data la loro capacità di essere sommate, mette in ricolo una quantità di energia molto superiore a quella che vien spiegata in atti di eroismo; anzi le azioni eroiche appaiono nel loro insieme minuscole come un granello di sabbia posto per illudersi in cima a un monte». Senza l’illusione – o la propaganda – dell’eroismo, della guerra resta solo il vuoto agghiacciante cantato con accenti definitivi da Fabrizio De André : «ma lei che lo amava aspettava il ritorno / d'un soldato vivo , d'un eroe morto che ne farà / se accanto nel letto le è rimasta la gloria / d'una medaglia alla memoria». Irrimediabilmente inattuali dunque gli inviti di Tirteo a resistere a gambe larghe, in prima fila, senza tregua senza pensare alla fuga vergognosa e offrire la propria vita, il proprio animo coraggioso. Questo uomo, valoroso nella battaglia, non esiste più. E forse proprio per questo – paradossalmente – le parole di Tirteo meritano di essere ricordate e lette e studiate ancora; per ricordaci chi siamo stati, fino a poco tempo fa, e chi siamo ancora quando decidiamo – con largo impiego di mezzi aerei e televisivi – di portare altrove la nostra democrazia, che gli antichi avevano pudore di nominare perché già ne conoscevano il rovescio ambiguo e oscuro, la cifra del kratos di sopraffazione violenta di una parte sugli altri.

Parole per la guerra: Omero, Tirteo e gli altri

IANNUCCI, ALESSANDRO
2017

Abstract

L’oratore Licurgo riferisce che gli Spartani avevano stabilito per legge di far recitare le elegie di Tirteo, davanti alla tenda del re, prima di una battaglia perché era questo il modo più efficace per infondere nell’esercito il desiderio di morire per la patria. “Bella la morte per l’uomo che cade in prima fila / da valoroso, quando combatte per la sua patria” – leggiamo nei versi di Tirteo – e prima ancora in Omero “Su, combattete contro le navi; e chi fra di voi / ferito o colpito ha da trovare destino di morte, / muoia, bello per lui, difendendo la patria, / morire”. In modo non del tutto dissimile, Goffredo Mameli, noto come il ‘Tirteo’ del nostro Risorgimento, ha spesso invocato nei suoi versi la bellezza eroica del morire per la patria, nell’invito a serrare i ranghi, in prima fila, e a resistere fino alla morte per il bene comune. Nella guerra, nel clamore della battaglia l’uomo antico conquista il proprio ruolo nel mondo, afferma la propria leadership e si conforma all’imperativo categorico del competere e vincere: essere il migliore sempre e primeggiare sugli altri. Il valore e l’eroismo spinto fino al sacrificio della vita – per affermare il proprio kleos combattendo nel nome di un bene comune, quello del ghenos o quello della terra dei padri – è un’etica di lunga durata nella nostra tradizione culturale; e ancora alle soglie della prima guerra mondiale la guerra è sentita come esperienza decisiva e formativa nella vita di un uomo. «La guerra non è che un duello su vasta scala», affermava von Clausewitz; e in nome di questo desiderio di superare l’avversario nel duello un’intera generazione – spesso educata attraverso le letture dei classici – si scontra con l’improvvisa inattualità della guerra negli orrori della trincea della prima guerra mondiale, quando il duello si trasforma in macello e sulle carni degli uomini piovono carni di altri uomini morti, e danno cibo ai topi come ora scrive Jan Echenoz . La fine dell’illusione della guerra eroica non è priva di conseguenza. Con puntiglio matematico, Robert Musil ne potrà subito trarre la conclusione paradossale che non sarà più possibile nemmeno pensare l’eroismo, perché la «fatica muscolare di un cittadino che attende tranquillamente ai fatti suoi per tutta la giornata è assai maggiore di quella di un atleta che sollevi una volta al giorno un grossissimo […]; e allo stesso modo si sa che la somma collettiva delle fatiche spicciole quotidiane, data la loro capacità di essere sommate, mette in ricolo una quantità di energia molto superiore a quella che vien spiegata in atti di eroismo; anzi le azioni eroiche appaiono nel loro insieme minuscole come un granello di sabbia posto per illudersi in cima a un monte». Senza l’illusione – o la propaganda – dell’eroismo, della guerra resta solo il vuoto agghiacciante cantato con accenti definitivi da Fabrizio De André : «ma lei che lo amava aspettava il ritorno / d'un soldato vivo , d'un eroe morto che ne farà / se accanto nel letto le è rimasta la gloria / d'una medaglia alla memoria». Irrimediabilmente inattuali dunque gli inviti di Tirteo a resistere a gambe larghe, in prima fila, senza tregua senza pensare alla fuga vergognosa e offrire la propria vita, il proprio animo coraggioso. Questo uomo, valoroso nella battaglia, non esiste più. E forse proprio per questo – paradossalmente – le parole di Tirteo meritano di essere ricordate e lette e studiate ancora; per ricordaci chi siamo stati, fino a poco tempo fa, e chi siamo ancora quando decidiamo – con largo impiego di mezzi aerei e televisivi – di portare altrove la nostra democrazia, che gli antichi avevano pudore di nominare perché già ne conoscevano il rovescio ambiguo e oscuro, la cifra del kratos di sopraffazione violenta di una parte sugli altri.
2017
Teatri di guerra. Da Omero agli ultimi giorni dell'umanità
23
47
Iannucci, Alessandro
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/592445
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