Hans Blumenberg in Paradigmi per una metaforologia ha mostrato come la storia di certe metafore consente di mettere in luce, nel corso del tempo e delle epoche, precise attitudini spirituali e visioni del mondo. Queste metafore tradizionali sono strettamente apparentate con quelli che in retorica si chiamano luoghi comuni. Si tratta di formule che vengono adottate da filosofi, come da scienziati e letterati, artisti, scrittori e architetti, come modelli preformati di cui essi credono di servirsi liberamente, ma che invece influenzano e indirizzano il loro pensiero. Queste idee, immagini o simboli, possono ispirare opere d’arte, poemi, discorsi filosofici o la pratica stessa della vita. Nel quadro di una storia di tali luoghi comuni assume un rilievo importante per l’architettura, l’espressione di derivazione vitruviana secondo cui la foresta è all’origine della città. La foresta è dunque anche l’origine dell’architettura. L’archetipo di questo luogo comune è il lucus, che in queste pagine è stato assunto come immagine dialettica con cui interpretare i progetti di Gianugo Polesello. Il lucus, o la radura nel bosco, stabilendo la differenza primordiale tra natura e cultura in qualche modo definisce allo stesso tempo l’atto originario della costruzione dello spazio. Costruzione dello spazio come immagine e come quantità misurabile. L’atto originario della costruzione dello spazio è pertanto intrinseco a ogni atto che si appresta a configurare il mondo in spazio misurato. Il lucus rappresenta, per altro verso, una sorta di realtà di un pensiero originario non completamente afferrabile, illogico, caratterizzato dalla pura forza della natura. Un mondo prima della ragione, nei confronti del quale la ragione umana cerca di sottrarre pezzi di realtà per trasformarli in forme significanti al proprio progetto di vita. In tal senso possiamo leggere lo spazio originario come fondativo delle forme dell’architettura e dello spazio urbano. Lo spazio originario è una delle categorie fondanti la concezione e la realtà dello spazio architettonico. Nella dimenticanza dello spazio originario l’architettura – ha scritto Le Corbusier – s’indebolisce: “L’architettura, oggi, non ricorda più ciò che la origina”, e quindi fatica a immaginare il proprio futuro. Rileggendo queste parole si può affermare che la parola origine è indispensabile alla sfera della comunicazione architettonica e che tramite essa l’architettura dovrebbe tornare a ribadire il suo potere di evocazione e di provocazione che Le Corbusier le ha più volte attribuito. L’origine ha una forza d’urto, una libertà di sfida, una bellezza di appello che sollevano le parole di Le Corbuisier, le sue immagini e in pari misura i suoi progetti, al di sopra della nuda sfera della necessità. Essendo l’origine inattingibile, il ruolo dello spazio originario si può esprimere nella sua dimensione simbolica. E il valore simbolico dello spazio originario, congiunto al valore simbolico degli elementi che lo costituiscono, definisce lo spazio rituale, attraverso il quale l’idea stessa di origine dello spazio si genera e prende consistenza. Lo spazio rituale costituisce una delle categorie di approssimazione al significato del fare-spazio del progetto di architettura che in queste pagine si è cercato di delineare. A proposito dello spazio rituale Roberto Calasso ha scritto che esso “va precisamente delimitato, perché i suoi confini sono quelli di un mondo intermedio, che si può definire come il mondo dell’azione efficace. Dove si scontrano una irrefrenabile pretesa di dominio e di controllo, su tutto, da una parte; e dall’altra un angoscioso, acutissimo senso di precarietà”. Un mondo intermedio dell’azione efficace in cui pretesa di dominio e senso di precarietà emergono e si scontrano è anche quello dello spazio urbano in cui si articolano gran parte delle relazioni inerenti la nostra condizione esistenziale. Lo spazio urbano rappresenta la seconda categoria con cui, dopo lo spazio rituale, in queste pagine sono stati interpretati alcune riflessioni e alcuni temi e progetti dell’architetto friulano. Gianugo Polesello propone una lettura dei fenomeni urbani, del concetto di locus e dei rapporti tra tipologia e morfologia, nella direzione della ricerca di una identità tra città e territorio, tra artificio e natura, in cui ritrovare una regola condivisa per l’agire progettuale. Non una regola universal-assoluta, ma quasi ineffabile, perché rintracciabile unicamente nella singolarità dei fenomeni urbani. In questa direzione si affaccia la visione razionale, interna agli studi urbani, di denuncia del nichilismo delle pratiche progettuali neopositivistiche e di matrice tecnocratica. Nella stessa direzione si apre la rivendicazione di autonomia della disciplina architettonica. Autonomia in questo contesto non è da intendersi come un perfetto soddisfacimento di sé accompagnato dalla pienezza della coscienza del proprio fare e produrre libero da qualsivoglia vincolo. Autonomia e soddisfacimento del proprio fare non si danno a dispetto della coscienza di sé ma al contrario in ragione di essa e nel contesto in cui l’architettura ritrova la libertà e l’autorità del proprio dire e progettare. Questo contesto ovviamente è la città. Ma è nella conoscenza dei monumenti e nella ricerca di forme e spazi per la collettività che l’architettura può ritrovare la sua autentica autonomia. In questo quadro, e nel quadro più generale del significato urbano che Polesello assegna all’architettura, anche e soprattutto lo spazio urbano – i vuoti urbani – sono da intendersi come monumenti. Nella ricerca-definizione dello spazio urbano, la coscienza di sé e del fare-progettare ritrovano dunque l’idea di uno spazio che può ancora raccogliere e custodire una comunità di uomini, invece che continuare a disperderla – così come appare nella città contemporanea –, mitigandola in forme biotecnologiche e pseudo−naturalistiche e in insiemi disarticolati di spazi urbani e architettonici connaturati prevalentemente ad una idea di biopolitica negativa. Come-fare, come configurare lo spazio urbano in grado di custodire e raccogliere una comunità sembra essere l’origine e la meta dei motivi e delle forme dei progetti di architettura di Gianugo Polesello. Non c’è dunque da meravigliarsi del fatto che ancora oggi noi possiamo ribadire che tramite le relazioni tra spazio urbano e monumenti l’uomo occidentale continua ad evocare uno spazio e una comunità in cui condividere passioni, emozioni, solidarietà e in cui poter vivere in un soddisfacimento cosciente di se stesso, possibilmente ed essenzialmente pacifico e, come auspica Giorgio Agamben, nei limiti del possibile, anche inoperoso. Sull’inoperosità pensata come uso della potenza che non si esaurisce completamente e semplicemente nella messa-in-opera, nel suo passaggio all’atto, ma è capace di preservarsi in qualcosa di messo-in-scena, ecco come si esprime Agamben: Se la pratica artistica è il luogo in cui si fa sentire con più forza l’urgenza e, insieme, la difficoltà della costituzione di una forma-di-vita, ciò è perché in essa si è conservata l’esperienza di una relazione a qualcosa che eccede l’opera e l’operazione e, tuttavia, resta inseparabile da essa. Un vivente non può mai essere definito dalla sua opera, ma soltanto dalla sua inoperosità, cioè dal modo in cui, mantenendosi, in un’opera, in relazione con una pura potenza, si costituisce come forma-di-vita, in cui zoè e bios, vita e forme, privato e pubblico entrano in una soglia di indifferenza e in questione non sono più la vita né l’opera, ma la felicità. E il pittore, il poeta, il pensatore – e, in generale, chiunque pratichi una poiesis e una attività – non sono i soggetti sovrani di un’operazione creatrice e di un’opera; sono, piuttosto, dei viventi anonimi che, rendendo ogni volta inoperose le opere del linguaggio, della visione, dei corpi, cercano di fare esperienza di sé e di costituire la loro vita come forma-di-vita. Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica – ha scritto Walter Benjamin – per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in un bosco. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni. No, non le prime, poiché le precedette quell’altro che a esse è sopravvissuto. La via verso questo labirinto, in cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me il primo pendio collinare. […] Che questo labirinto avesse una sua importanza, l’ho avvertito da sempre in quell’ampio e insignificante spiazzo che per nulla lasciava presagire come qui, solo a pochi passi dalla fila delle carrozze e delle vetture di piazza, dormisse la parte più misteriosa del parco. La parte più misteriosa dell’esperienza urbana dell’infanzia berlinese di Walter Benjamin, sembra essere proprio il lucus, nella sua ambiguità costitutiva di bosco e radura. Misteriosa perché capace di configurare un luogo in cui rigenerarsi, prim’ancora che come luogo di rifugio. Tra la possibilità e l’impossibilità di definire l’architettura come luogo di rigenerazione di una comunità, del sentimento del sacro come comunità, della sfera del mito e dell’istanza liberatrice della tecnica, si situa la terza categoria interpretativa del fare-spazio dei progetti di Polesello: lo spazio impossibile. L’idea di spazio impossibile consente di incorporare nella concezione del progetto simboli, miti e immagini fino al limite della loro indecifrabilità e sparizione, per renderlo razionale e poietico allo stesso tempo. Lo spazio impossibile è la premessa per lasciare spazio alla contemplazione, a ciò che sembra in prima istanza inesprimibile e che solo col tempo può assumere e rivelare il suo significato autentico. Perché le cose non sono mai come sembrano. Nella sfera delle congetture normalizzanti emozioni e significati, l’architettura si è come indebolita ripiegando la sua pratica nella sacra sfera del bisogno? Nella sfera del bisogno sembrano, infatti, assopiti i rapporti tra forma e significato dell’architettura. I bisogni sono sempre nobili. Indebolita perché? Sono solo assopiti perché non si può annientare, normalizzare, la poiesis insita nel fare architettonico che attraverso la necessità istituisce e indica un rimedio sia al desiderio sia alla paura di questo nostro mondo. Per comprendere meglio questo stato di cose possiamo ricordare la domanda che pone Simone Weil nel primo dei suoi Quaderni: “Architettura, geometria, sono immagini del dharma?” L’idea di uno spazio impossibile è probabilmente la cifra caratteristica e il lascito teorico più importante e celato di Gianugo Polesello. Laddove nelle pratiche del progetto di architettura si ripropone la cultura dell’illimitato pensare di poter fare, manipolare, comporre e scomporre tutto e il contrario di tutto, il lascito dell’esperienza progettuale di Polesello riconduce al pensiero e alla cultura del limite. Nella forma riconoscibile che caratterizza i suoi progetti c’è la presa di coscienza e il riflesso dei limiti umani e della propria finitudine. Riconoscendosi come limitato, come finito, l’uomo riconosce che le sue forme, le sue opere e il suo destino non sono completamente nelle sue mani. Già Leon Battista Alberti nel Momus invitava alla presa di coscienza della tragica limitatezza ontologica costitutiva dell’individuo, e dunque del suo fare. La generazione di senso e di uso delle cose e del mondo non è totalmente a disposizione dell’uomo, ma discende dal suo essere nel mondo e nella storia in cui egli è richiamato a riflettersi come essere finito. La ripresa dell’idea classica di misura presente nelle composizioni architettoniche di Polesello esprime la misurabilità del mondo. E la misurabilità della materia infinita e del vuoto significano anche ricerca di armonia e simmetria tra le parti e il tutto. Nella riconoscibilità dei propri limiti emerge lo spazio del dono. La reciprocità e la bellezza del dare-avere. Nel caso dell’architettura possiamo anche dire dello spazio come dono. Nella reciprocità che il dono stabilisce tra le relazioni umane – in cui Marcel Mauss ha visto la possibilità di rigenerare una comunità al di là dell’agire prepotente degli interessi economici – gioca un ruolo importante il fare-spazio per donare-luoghi costitutivo dell’architettura della città. In questa dimensione donativa di senso, di forme e di cose, l’architettura ratifica la sua autentica ragion d’essere e riattiva un’antica e rigenerativa ricerca di significati. È lo stesso desiderio di cui parla Zarathustra: “Vorrei spartire i miei doni finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza”. La composizione-progettazione di uno spazio originario e rituale è intrinsecamente legata all’istinto umano di sacralizzazione della realtà che lo circonda, la quale, nel bene e nel male, lo condiziona rendendolo felice o assolutamente spaesato, aggressivo e crudele. Per eliminare il pericolo di caduta in uno spazio caotico, la sacralizzazione della realtà dello spazio dei legami umani – urbano, spirituale, politico, economico –, immagina una dimensione rivelativa, progressiva e migliorativa rispetto ad una semplice visione solo utilitaristica della realtà. Così predispone lo spazio per l’accadere di qualcosa di buono. La realtà utilitaristica è quella che si arrende alla legge del positivo, per la quale ha senso ed è reale soltanto ciò che è razionale, soltanto ciò che è dato e quantificabile. Da questa legge proviene anche la norma con cui si dice: è naturale che sia così. L’uomo è l’unico essere del regno animale ad aver abbandonato la sua natura, se con natura intendiamo un repertorio di comportamenti con cui ogni specie appare provvista fin dalla nascita. L’architettura, come l’arte, come tutte le invenzioni dell’uomo, non ha niente di naturale. L’architettura è nel campo dell’innaturale. Per questo stesso motivo, forse, la struttura e gli spazi aperti – recinti senza barriere – dei progetti di Polesello, si pongono, come per le composizioni di Mies van der Rohe e Le Corbusier, come immagini meta-storiche. Non si tratta di rappresentare solamente la costruzione come significato dell’architettura. Ma di volgere lo sguardo al suo contenuto archetipico. Quel contenuto meta-narrativo con cui gli archetipi consentono un comportamento e un orientamento possibile nel caos delle apparenze e della proliferazione infinita d’immagini senza referenti con cui il fare architettonico si trova continuamente a fare i conti. L’archetipo disvela la memoria immemorabile che accomuna l’abitare delle più svariate comunità storiche. Incorporare archetipi nel progetto di architettura significa, infatti, suggerire un racconto, una narrazione, cioè una provenienza e una destinazione delle forme di vita. Come insegnano la letteratura e la filosofia, eppoi la psicanalisi come l’esperienza comune, di narrazioni si nutrono i principi di superamento di ogni forma di paura, di ogni forma di crisi e di trauma. Come già accennato lo spazio architettonico che in queste pagine si vuole evocare, si configura come rigenerativo e non solo e semplicemente come spazio di protezione. Da una parte c’è la paura, il pericolo di sparire, un luogo della protezione dalla sparizione. Dall’altro c’è un luogo di rigenerazione e di allontanamento della paura di sparire in relazione al desiderio di permanere. Lo spazio e le forme dell’architettura esprimono questa ricerca di permanenza che per certi aspetti si accompagna al bisogno di comprendere e favorire un’esperienza estatica della realtà. Esperienza formativa e rigenerativa, capace di allontanare forme e spazi dell’abitare dal loro esclusivo assorbimento nelle istanze biotecnologiche, intrise di tanatologia. Le richieste di spazi protetti e barricati non a caso si alimentano dei nessi tra confort e sicurezza per trasformare e assoggettare lo spazio architettonico a semplice spazio biologico del consumo. Il lucus, coi suoi lampi di luce e le sue strisce d’ombra, rappresenta invece una sorta di promessa eroica dell’esistenza, un luogo in cui si celano l’unità e l’estasi da cui ogni sentimento promana. Da questo punto di vista l’archetipo del lucus, – come altre figure simboliche evocate nelle pagine di questo saggio – , indica l’impossibilità di possedere pienamente qualcosa, indica un modo diverso di relazionarsi con la terra e con le sue risorse. Se il pensiero heideggeriano, nel suo ascolto di quanto resta insondato dell’esistenza (la temporalità, la morte, il rapporto con l’assenza e col nulla) ci suggerisce di rimanere aperti alla discontinuità di fondo della condizione umana, e ai multiformi linguaggi e progetti che l’attraversano, il lucus ci offre al contempo l’immagine di uno spazio che si sottrae alla realtà coincidente con il senso del dominio. Lo spazio indominabile e alcune sue figure rappresentano lo sfondo significante sia delle pagine di questo saggio sia più in generale del significato dello spazio del progetto di architettura. I progetti di Gianugo Polesello si avvicinano alla realtà e alla bellezza di uno spazio dell’indominabile. Per il lucus valgono forse le stesse bellissime parole che Lucio Dalla ha dedicato al mare: Certo / Chi comanda / Non è disposto a fare distinzioni poetiche / Il pensiero come l’oceano / Non lo puoi bloccare / Non lo puoi recintare.

Lucus. Intorno al significato nell'architettura di Gianugo Polesello / Clemente, Ildebrando. - STAMPA. - (2016), pp. 1-256.

Lucus. Intorno al significato nell'architettura di Gianugo Polesello

CLEMENTE, ILDEBRANDO
2016

Abstract

Hans Blumenberg in Paradigmi per una metaforologia ha mostrato come la storia di certe metafore consente di mettere in luce, nel corso del tempo e delle epoche, precise attitudini spirituali e visioni del mondo. Queste metafore tradizionali sono strettamente apparentate con quelli che in retorica si chiamano luoghi comuni. Si tratta di formule che vengono adottate da filosofi, come da scienziati e letterati, artisti, scrittori e architetti, come modelli preformati di cui essi credono di servirsi liberamente, ma che invece influenzano e indirizzano il loro pensiero. Queste idee, immagini o simboli, possono ispirare opere d’arte, poemi, discorsi filosofici o la pratica stessa della vita. Nel quadro di una storia di tali luoghi comuni assume un rilievo importante per l’architettura, l’espressione di derivazione vitruviana secondo cui la foresta è all’origine della città. La foresta è dunque anche l’origine dell’architettura. L’archetipo di questo luogo comune è il lucus, che in queste pagine è stato assunto come immagine dialettica con cui interpretare i progetti di Gianugo Polesello. Il lucus, o la radura nel bosco, stabilendo la differenza primordiale tra natura e cultura in qualche modo definisce allo stesso tempo l’atto originario della costruzione dello spazio. Costruzione dello spazio come immagine e come quantità misurabile. L’atto originario della costruzione dello spazio è pertanto intrinseco a ogni atto che si appresta a configurare il mondo in spazio misurato. Il lucus rappresenta, per altro verso, una sorta di realtà di un pensiero originario non completamente afferrabile, illogico, caratterizzato dalla pura forza della natura. Un mondo prima della ragione, nei confronti del quale la ragione umana cerca di sottrarre pezzi di realtà per trasformarli in forme significanti al proprio progetto di vita. In tal senso possiamo leggere lo spazio originario come fondativo delle forme dell’architettura e dello spazio urbano. Lo spazio originario è una delle categorie fondanti la concezione e la realtà dello spazio architettonico. Nella dimenticanza dello spazio originario l’architettura – ha scritto Le Corbusier – s’indebolisce: “L’architettura, oggi, non ricorda più ciò che la origina”, e quindi fatica a immaginare il proprio futuro. Rileggendo queste parole si può affermare che la parola origine è indispensabile alla sfera della comunicazione architettonica e che tramite essa l’architettura dovrebbe tornare a ribadire il suo potere di evocazione e di provocazione che Le Corbusier le ha più volte attribuito. L’origine ha una forza d’urto, una libertà di sfida, una bellezza di appello che sollevano le parole di Le Corbuisier, le sue immagini e in pari misura i suoi progetti, al di sopra della nuda sfera della necessità. Essendo l’origine inattingibile, il ruolo dello spazio originario si può esprimere nella sua dimensione simbolica. E il valore simbolico dello spazio originario, congiunto al valore simbolico degli elementi che lo costituiscono, definisce lo spazio rituale, attraverso il quale l’idea stessa di origine dello spazio si genera e prende consistenza. Lo spazio rituale costituisce una delle categorie di approssimazione al significato del fare-spazio del progetto di architettura che in queste pagine si è cercato di delineare. A proposito dello spazio rituale Roberto Calasso ha scritto che esso “va precisamente delimitato, perché i suoi confini sono quelli di un mondo intermedio, che si può definire come il mondo dell’azione efficace. Dove si scontrano una irrefrenabile pretesa di dominio e di controllo, su tutto, da una parte; e dall’altra un angoscioso, acutissimo senso di precarietà”. Un mondo intermedio dell’azione efficace in cui pretesa di dominio e senso di precarietà emergono e si scontrano è anche quello dello spazio urbano in cui si articolano gran parte delle relazioni inerenti la nostra condizione esistenziale. Lo spazio urbano rappresenta la seconda categoria con cui, dopo lo spazio rituale, in queste pagine sono stati interpretati alcune riflessioni e alcuni temi e progetti dell’architetto friulano. Gianugo Polesello propone una lettura dei fenomeni urbani, del concetto di locus e dei rapporti tra tipologia e morfologia, nella direzione della ricerca di una identità tra città e territorio, tra artificio e natura, in cui ritrovare una regola condivisa per l’agire progettuale. Non una regola universal-assoluta, ma quasi ineffabile, perché rintracciabile unicamente nella singolarità dei fenomeni urbani. In questa direzione si affaccia la visione razionale, interna agli studi urbani, di denuncia del nichilismo delle pratiche progettuali neopositivistiche e di matrice tecnocratica. Nella stessa direzione si apre la rivendicazione di autonomia della disciplina architettonica. Autonomia in questo contesto non è da intendersi come un perfetto soddisfacimento di sé accompagnato dalla pienezza della coscienza del proprio fare e produrre libero da qualsivoglia vincolo. Autonomia e soddisfacimento del proprio fare non si danno a dispetto della coscienza di sé ma al contrario in ragione di essa e nel contesto in cui l’architettura ritrova la libertà e l’autorità del proprio dire e progettare. Questo contesto ovviamente è la città. Ma è nella conoscenza dei monumenti e nella ricerca di forme e spazi per la collettività che l’architettura può ritrovare la sua autentica autonomia. In questo quadro, e nel quadro più generale del significato urbano che Polesello assegna all’architettura, anche e soprattutto lo spazio urbano – i vuoti urbani – sono da intendersi come monumenti. Nella ricerca-definizione dello spazio urbano, la coscienza di sé e del fare-progettare ritrovano dunque l’idea di uno spazio che può ancora raccogliere e custodire una comunità di uomini, invece che continuare a disperderla – così come appare nella città contemporanea –, mitigandola in forme biotecnologiche e pseudo−naturalistiche e in insiemi disarticolati di spazi urbani e architettonici connaturati prevalentemente ad una idea di biopolitica negativa. Come-fare, come configurare lo spazio urbano in grado di custodire e raccogliere una comunità sembra essere l’origine e la meta dei motivi e delle forme dei progetti di architettura di Gianugo Polesello. Non c’è dunque da meravigliarsi del fatto che ancora oggi noi possiamo ribadire che tramite le relazioni tra spazio urbano e monumenti l’uomo occidentale continua ad evocare uno spazio e una comunità in cui condividere passioni, emozioni, solidarietà e in cui poter vivere in un soddisfacimento cosciente di se stesso, possibilmente ed essenzialmente pacifico e, come auspica Giorgio Agamben, nei limiti del possibile, anche inoperoso. Sull’inoperosità pensata come uso della potenza che non si esaurisce completamente e semplicemente nella messa-in-opera, nel suo passaggio all’atto, ma è capace di preservarsi in qualcosa di messo-in-scena, ecco come si esprime Agamben: Se la pratica artistica è il luogo in cui si fa sentire con più forza l’urgenza e, insieme, la difficoltà della costituzione di una forma-di-vita, ciò è perché in essa si è conservata l’esperienza di una relazione a qualcosa che eccede l’opera e l’operazione e, tuttavia, resta inseparabile da essa. Un vivente non può mai essere definito dalla sua opera, ma soltanto dalla sua inoperosità, cioè dal modo in cui, mantenendosi, in un’opera, in relazione con una pura potenza, si costituisce come forma-di-vita, in cui zoè e bios, vita e forme, privato e pubblico entrano in una soglia di indifferenza e in questione non sono più la vita né l’opera, ma la felicità. E il pittore, il poeta, il pensatore – e, in generale, chiunque pratichi una poiesis e una attività – non sono i soggetti sovrani di un’operazione creatrice e di un’opera; sono, piuttosto, dei viventi anonimi che, rendendo ogni volta inoperose le opere del linguaggio, della visione, dei corpi, cercano di fare esperienza di sé e di costituire la loro vita come forma-di-vita. Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica – ha scritto Walter Benjamin – per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in un bosco. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni. No, non le prime, poiché le precedette quell’altro che a esse è sopravvissuto. La via verso questo labirinto, in cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me il primo pendio collinare. […] Che questo labirinto avesse una sua importanza, l’ho avvertito da sempre in quell’ampio e insignificante spiazzo che per nulla lasciava presagire come qui, solo a pochi passi dalla fila delle carrozze e delle vetture di piazza, dormisse la parte più misteriosa del parco. La parte più misteriosa dell’esperienza urbana dell’infanzia berlinese di Walter Benjamin, sembra essere proprio il lucus, nella sua ambiguità costitutiva di bosco e radura. Misteriosa perché capace di configurare un luogo in cui rigenerarsi, prim’ancora che come luogo di rifugio. Tra la possibilità e l’impossibilità di definire l’architettura come luogo di rigenerazione di una comunità, del sentimento del sacro come comunità, della sfera del mito e dell’istanza liberatrice della tecnica, si situa la terza categoria interpretativa del fare-spazio dei progetti di Polesello: lo spazio impossibile. L’idea di spazio impossibile consente di incorporare nella concezione del progetto simboli, miti e immagini fino al limite della loro indecifrabilità e sparizione, per renderlo razionale e poietico allo stesso tempo. Lo spazio impossibile è la premessa per lasciare spazio alla contemplazione, a ciò che sembra in prima istanza inesprimibile e che solo col tempo può assumere e rivelare il suo significato autentico. Perché le cose non sono mai come sembrano. Nella sfera delle congetture normalizzanti emozioni e significati, l’architettura si è come indebolita ripiegando la sua pratica nella sacra sfera del bisogno? Nella sfera del bisogno sembrano, infatti, assopiti i rapporti tra forma e significato dell’architettura. I bisogni sono sempre nobili. Indebolita perché? Sono solo assopiti perché non si può annientare, normalizzare, la poiesis insita nel fare architettonico che attraverso la necessità istituisce e indica un rimedio sia al desiderio sia alla paura di questo nostro mondo. Per comprendere meglio questo stato di cose possiamo ricordare la domanda che pone Simone Weil nel primo dei suoi Quaderni: “Architettura, geometria, sono immagini del dharma?” L’idea di uno spazio impossibile è probabilmente la cifra caratteristica e il lascito teorico più importante e celato di Gianugo Polesello. Laddove nelle pratiche del progetto di architettura si ripropone la cultura dell’illimitato pensare di poter fare, manipolare, comporre e scomporre tutto e il contrario di tutto, il lascito dell’esperienza progettuale di Polesello riconduce al pensiero e alla cultura del limite. Nella forma riconoscibile che caratterizza i suoi progetti c’è la presa di coscienza e il riflesso dei limiti umani e della propria finitudine. Riconoscendosi come limitato, come finito, l’uomo riconosce che le sue forme, le sue opere e il suo destino non sono completamente nelle sue mani. Già Leon Battista Alberti nel Momus invitava alla presa di coscienza della tragica limitatezza ontologica costitutiva dell’individuo, e dunque del suo fare. La generazione di senso e di uso delle cose e del mondo non è totalmente a disposizione dell’uomo, ma discende dal suo essere nel mondo e nella storia in cui egli è richiamato a riflettersi come essere finito. La ripresa dell’idea classica di misura presente nelle composizioni architettoniche di Polesello esprime la misurabilità del mondo. E la misurabilità della materia infinita e del vuoto significano anche ricerca di armonia e simmetria tra le parti e il tutto. Nella riconoscibilità dei propri limiti emerge lo spazio del dono. La reciprocità e la bellezza del dare-avere. Nel caso dell’architettura possiamo anche dire dello spazio come dono. Nella reciprocità che il dono stabilisce tra le relazioni umane – in cui Marcel Mauss ha visto la possibilità di rigenerare una comunità al di là dell’agire prepotente degli interessi economici – gioca un ruolo importante il fare-spazio per donare-luoghi costitutivo dell’architettura della città. In questa dimensione donativa di senso, di forme e di cose, l’architettura ratifica la sua autentica ragion d’essere e riattiva un’antica e rigenerativa ricerca di significati. È lo stesso desiderio di cui parla Zarathustra: “Vorrei spartire i miei doni finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza”. La composizione-progettazione di uno spazio originario e rituale è intrinsecamente legata all’istinto umano di sacralizzazione della realtà che lo circonda, la quale, nel bene e nel male, lo condiziona rendendolo felice o assolutamente spaesato, aggressivo e crudele. Per eliminare il pericolo di caduta in uno spazio caotico, la sacralizzazione della realtà dello spazio dei legami umani – urbano, spirituale, politico, economico –, immagina una dimensione rivelativa, progressiva e migliorativa rispetto ad una semplice visione solo utilitaristica della realtà. Così predispone lo spazio per l’accadere di qualcosa di buono. La realtà utilitaristica è quella che si arrende alla legge del positivo, per la quale ha senso ed è reale soltanto ciò che è razionale, soltanto ciò che è dato e quantificabile. Da questa legge proviene anche la norma con cui si dice: è naturale che sia così. L’uomo è l’unico essere del regno animale ad aver abbandonato la sua natura, se con natura intendiamo un repertorio di comportamenti con cui ogni specie appare provvista fin dalla nascita. L’architettura, come l’arte, come tutte le invenzioni dell’uomo, non ha niente di naturale. L’architettura è nel campo dell’innaturale. Per questo stesso motivo, forse, la struttura e gli spazi aperti – recinti senza barriere – dei progetti di Polesello, si pongono, come per le composizioni di Mies van der Rohe e Le Corbusier, come immagini meta-storiche. Non si tratta di rappresentare solamente la costruzione come significato dell’architettura. Ma di volgere lo sguardo al suo contenuto archetipico. Quel contenuto meta-narrativo con cui gli archetipi consentono un comportamento e un orientamento possibile nel caos delle apparenze e della proliferazione infinita d’immagini senza referenti con cui il fare architettonico si trova continuamente a fare i conti. L’archetipo disvela la memoria immemorabile che accomuna l’abitare delle più svariate comunità storiche. Incorporare archetipi nel progetto di architettura significa, infatti, suggerire un racconto, una narrazione, cioè una provenienza e una destinazione delle forme di vita. Come insegnano la letteratura e la filosofia, eppoi la psicanalisi come l’esperienza comune, di narrazioni si nutrono i principi di superamento di ogni forma di paura, di ogni forma di crisi e di trauma. Come già accennato lo spazio architettonico che in queste pagine si vuole evocare, si configura come rigenerativo e non solo e semplicemente come spazio di protezione. Da una parte c’è la paura, il pericolo di sparire, un luogo della protezione dalla sparizione. Dall’altro c’è un luogo di rigenerazione e di allontanamento della paura di sparire in relazione al desiderio di permanere. Lo spazio e le forme dell’architettura esprimono questa ricerca di permanenza che per certi aspetti si accompagna al bisogno di comprendere e favorire un’esperienza estatica della realtà. Esperienza formativa e rigenerativa, capace di allontanare forme e spazi dell’abitare dal loro esclusivo assorbimento nelle istanze biotecnologiche, intrise di tanatologia. Le richieste di spazi protetti e barricati non a caso si alimentano dei nessi tra confort e sicurezza per trasformare e assoggettare lo spazio architettonico a semplice spazio biologico del consumo. Il lucus, coi suoi lampi di luce e le sue strisce d’ombra, rappresenta invece una sorta di promessa eroica dell’esistenza, un luogo in cui si celano l’unità e l’estasi da cui ogni sentimento promana. Da questo punto di vista l’archetipo del lucus, – come altre figure simboliche evocate nelle pagine di questo saggio – , indica l’impossibilità di possedere pienamente qualcosa, indica un modo diverso di relazionarsi con la terra e con le sue risorse. Se il pensiero heideggeriano, nel suo ascolto di quanto resta insondato dell’esistenza (la temporalità, la morte, il rapporto con l’assenza e col nulla) ci suggerisce di rimanere aperti alla discontinuità di fondo della condizione umana, e ai multiformi linguaggi e progetti che l’attraversano, il lucus ci offre al contempo l’immagine di uno spazio che si sottrae alla realtà coincidente con il senso del dominio. Lo spazio indominabile e alcune sue figure rappresentano lo sfondo significante sia delle pagine di questo saggio sia più in generale del significato dello spazio del progetto di architettura. I progetti di Gianugo Polesello si avvicinano alla realtà e alla bellezza di uno spazio dell’indominabile. Per il lucus valgono forse le stesse bellissime parole che Lucio Dalla ha dedicato al mare: Certo / Chi comanda / Non è disposto a fare distinzioni poetiche / Il pensiero come l’oceano / Non lo puoi bloccare / Non lo puoi recintare.
2016
256
9788898262434
Lucus. Intorno al significato nell'architettura di Gianugo Polesello / Clemente, Ildebrando. - STAMPA. - (2016), pp. 1-256.
Clemente, Ildebrando
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