Il saggio fa riferimento ai dibattiti critici e teorici sulle fotografie di tortura dal carcere di Abu Ghraib per uno studio sulla postmemory e l'etica della memoria. Si incentra sulla rappresentazione, trasmissione ed elaborazione della memoria nei media, nella letteratura - nelle sue diverse espressioni - e nelle analisi critiche. Le fotografie da Abu Ghraib vengono analizzate nella loro ricezione e 'trasformazione', nonché nelle loro 'radici' politico-culturali. Gli studi della tecnologia come mediazione e produzione di realtà, così come lo studio della rappresentazione come formazione discorsiva, inducono a riconoscere nella ricezione di queste fotografie di tortura e nella loro interpretazione una politica di manipolazione e occultamento della memoria (che sia volontaria o involontaria è ancora più perturbante). E tuttavia è proprio nella ricezione e nelle metodologie di analisi critiche che questa questione diviene cruciale. Da un lato esse sono una condanna della guerra basata sull’eterna mitologia della lotta tra due opposte civiltà, dei modi in cui la guerra e il terrore contro il terrorismo è descritto, giudicato, e disseminato. Nella circolazione globalizzata, le fotografie che rappresentano la tortura e il rapporto tra prigionieri e soldati hanno una funzione ambivalente. Da un alto rivelano, e condannano, dall’altro possono indurre una visione della guerra da turista globale. E’ nostra responsabilità decostruire questa ambivalenza. Così come è stato fatto rilevare a proposito dell’Olocausto, la ripetizione delle stesse immagini ha in maniera disturbante portato con sé la radicale decontestualizzazione dal loro contesto originale di produzione (e ricezione). Se queste immagini, nella loro ripetizione ossessiva, limitano o delimitano il nostro archivio personale e collettivo sul trauma, possono esse indurre un discorso etico nel periodo successivo? Agiscono come cliché, significanti vuoti che ci proteggono e distanziano dal problema, pur nell’orrore? Oppure, al contrario, la ripetizione in se stessa ri-traumatizza rendendo sia gli osservatori distanti che gli eredi della memoria vittime (o carnefici) surrogati? Per non incorrere nell’errore critico che alcuni studiosi denunciano, le fotografie di Abu Ghraib non solo pongono i problemi a cui prima accennavamo, ma anche quelli legati all’abitudine dello sguardo, alla costruzione dell’orrore come performance. Una volta riconosciuta l’indubbia funzione e l’indubbio valore di denuncia che è derivato dall’aver rese pubbliche queste fotografie, il problema non si pone solo in termini di censura o liberalizzazione, ma anche in termini di politica della ricezione. Per esempio occorre pensare anche alla responsabilità etica di acquisire e mantenere uno sguardo ‘disabituato’ e ostinatamente non voyeristico nei confronti dall’assemblaggio mediatico dell’orrore. Ma, ad esempio, si tratta anche di non dimenticare di avere visto o di rifiutare non già di guardare, ma di vedere.
R. Monticelli (2008). "Lo spostamento della realtà nelle fotografie": tecnologie e trasmissioni della memoria.. ROMA : Meltemi.
"Lo spostamento della realtà nelle fotografie": tecnologie e trasmissioni della memoria.
MONTICELLI, RITA
2008
Abstract
Il saggio fa riferimento ai dibattiti critici e teorici sulle fotografie di tortura dal carcere di Abu Ghraib per uno studio sulla postmemory e l'etica della memoria. Si incentra sulla rappresentazione, trasmissione ed elaborazione della memoria nei media, nella letteratura - nelle sue diverse espressioni - e nelle analisi critiche. Le fotografie da Abu Ghraib vengono analizzate nella loro ricezione e 'trasformazione', nonché nelle loro 'radici' politico-culturali. Gli studi della tecnologia come mediazione e produzione di realtà, così come lo studio della rappresentazione come formazione discorsiva, inducono a riconoscere nella ricezione di queste fotografie di tortura e nella loro interpretazione una politica di manipolazione e occultamento della memoria (che sia volontaria o involontaria è ancora più perturbante). E tuttavia è proprio nella ricezione e nelle metodologie di analisi critiche che questa questione diviene cruciale. Da un lato esse sono una condanna della guerra basata sull’eterna mitologia della lotta tra due opposte civiltà, dei modi in cui la guerra e il terrore contro il terrorismo è descritto, giudicato, e disseminato. Nella circolazione globalizzata, le fotografie che rappresentano la tortura e il rapporto tra prigionieri e soldati hanno una funzione ambivalente. Da un alto rivelano, e condannano, dall’altro possono indurre una visione della guerra da turista globale. E’ nostra responsabilità decostruire questa ambivalenza. Così come è stato fatto rilevare a proposito dell’Olocausto, la ripetizione delle stesse immagini ha in maniera disturbante portato con sé la radicale decontestualizzazione dal loro contesto originale di produzione (e ricezione). Se queste immagini, nella loro ripetizione ossessiva, limitano o delimitano il nostro archivio personale e collettivo sul trauma, possono esse indurre un discorso etico nel periodo successivo? Agiscono come cliché, significanti vuoti che ci proteggono e distanziano dal problema, pur nell’orrore? Oppure, al contrario, la ripetizione in se stessa ri-traumatizza rendendo sia gli osservatori distanti che gli eredi della memoria vittime (o carnefici) surrogati? Per non incorrere nell’errore critico che alcuni studiosi denunciano, le fotografie di Abu Ghraib non solo pongono i problemi a cui prima accennavamo, ma anche quelli legati all’abitudine dello sguardo, alla costruzione dell’orrore come performance. Una volta riconosciuta l’indubbia funzione e l’indubbio valore di denuncia che è derivato dall’aver rese pubbliche queste fotografie, il problema non si pone solo in termini di censura o liberalizzazione, ma anche in termini di politica della ricezione. Per esempio occorre pensare anche alla responsabilità etica di acquisire e mantenere uno sguardo ‘disabituato’ e ostinatamente non voyeristico nei confronti dall’assemblaggio mediatico dell’orrore. Ma, ad esempio, si tratta anche di non dimenticare di avere visto o di rifiutare non già di guardare, ma di vedere.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.