Sarah Moon ha indicato la scelta del bianco e nero della sua fotografia come una strada verso la memoria e verso la solitudine. Il colore in fotografia è la ricerca del mimetismo con la realtà e della resa il più possibile rispondente al desiderio che essa sia in grado di riconsegnare agli occhi di chi guarda un’esperienza verosimile, un deja vù possibile, probabile. Il bianco e nero è invece la dimensione originaria del fotografico: un mondo di luci e ombre costituito anzitutto da ritratti, architetture e nature morte che si è andato accumulando (fino alla fine degli anni Trenta del Novecento) costruendo un album di ricordi collettivi nei quali per la prima volta la società moderna si specchiava, scopriva il suo vero volto, i propri ambienti e gli oggetti che li abitavano, grazie alle magie della nuova scoperta tecnologica. Quando in fotografia si sceglie di lavorare con il bianco e nero è proprio questa dimensione di lontananza e di auraticità che inevitabilmente viene recuperata. Una strana e apparentemente paradossale dimensione che è insieme di reminiscenza del passato ma anche di atemporalità. Le tracce della nostra memoria, che riaffiorano cristallizzate in immagine, ottengono dalla purezza del bianco e nero uno statuto di monumentalità che induce al rispetto, quel rispetto che si deve a ciò che porta i segni di storie lontane e alle quali possiamo accedere solo come la sublimazione virtuale di realtà vissute da altri. Ma al tempo stesso, e in conseguenza di questo effetto di dislocazione temporale, le foto in bianco e nero sembrano anche sospendere il flusso di memoria per attingere a un eterno presente. Aiutato dal bianco e nero, il processo di museificazione che il soggetto fotografato subisce (per il solo fatto di essersi sdoppiato di fronte a una macchina automatica) aumenta la sua dose di distanza e dunque di stranezza, di queerness, perché divergendo dall’esperienza quotidiana acquista in mistero.

La memoria fotografata nelle pieghe del tempo

MUZZARELLI, FEDERICA
2015

Abstract

Sarah Moon ha indicato la scelta del bianco e nero della sua fotografia come una strada verso la memoria e verso la solitudine. Il colore in fotografia è la ricerca del mimetismo con la realtà e della resa il più possibile rispondente al desiderio che essa sia in grado di riconsegnare agli occhi di chi guarda un’esperienza verosimile, un deja vù possibile, probabile. Il bianco e nero è invece la dimensione originaria del fotografico: un mondo di luci e ombre costituito anzitutto da ritratti, architetture e nature morte che si è andato accumulando (fino alla fine degli anni Trenta del Novecento) costruendo un album di ricordi collettivi nei quali per la prima volta la società moderna si specchiava, scopriva il suo vero volto, i propri ambienti e gli oggetti che li abitavano, grazie alle magie della nuova scoperta tecnologica. Quando in fotografia si sceglie di lavorare con il bianco e nero è proprio questa dimensione di lontananza e di auraticità che inevitabilmente viene recuperata. Una strana e apparentemente paradossale dimensione che è insieme di reminiscenza del passato ma anche di atemporalità. Le tracce della nostra memoria, che riaffiorano cristallizzate in immagine, ottengono dalla purezza del bianco e nero uno statuto di monumentalità che induce al rispetto, quel rispetto che si deve a ciò che porta i segni di storie lontane e alle quali possiamo accedere solo come la sublimazione virtuale di realtà vissute da altri. Ma al tempo stesso, e in conseguenza di questo effetto di dislocazione temporale, le foto in bianco e nero sembrano anche sospendere il flusso di memoria per attingere a un eterno presente. Aiutato dal bianco e nero, il processo di museificazione che il soggetto fotografato subisce (per il solo fatto di essersi sdoppiato di fronte a una macchina automatica) aumenta la sua dose di distanza e dunque di stranezza, di queerness, perché divergendo dall’esperienza quotidiana acquista in mistero.
2015
Sarah Moon. Omaggio a Mariano Fortuny
19
23
Federica, Muzzarelli
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