La dimensione della corporalità è da sempre, da un punto di vista culturale come da quello filosofico e infine religioso, associata al mondo al femminile. In questo senso il corpo delle donne è stato tradizionalmente vissuto come l’interfaccia della loro identità: sia che venisse collegato alla realtà mondana e terrena dell’esperienza umana, sia che fosse vincolato alle perversioni del peccato come ai limiti dell’irrazionalità, del disordine, del sentimentalismo. Dagli scritti di Simone de Beauvoir in poi il corpo delle donne è divenuto sinonimo di esperienza, conoscenza, definizione identitaria. E delle donne, si è detto, che sono culturalmente corporee. Così, tenute a margini della cultura ufficiale, le donne hanno spesso “coltivato” quest’isolamento come paradossale campo di rivendicazione di un’autonomia borderline e di un’attiva sperimentazione delle proprie esigenze esistenziali ed estetiche. Quella che avrebbe dovuto, e lo era, essere una condizione d’inferiorità e di frustrazione, di claustrofobia e di negazione, ha così potuto invece costituirsi come un’arma di incredibile vantaggio su chi, gli uomini, erano già allineati al sistema, al sistema appartenevano naturalmente e culturalmente. Ma quando la rimozione che la cultura occidentale aveva effettuato nei confronti del gesto e del corpo subisce un ribaltamento, e questo avverrà in specie a partire dall’estetica novecentesca (fenomenologica in primis e con il suo apice in autori quali John Dewey e Maurice Merleau-Ponty), allora la dimestichezza e la familiarità delle donne con le dinamiche del corpo le predisporrà quasi in posizione di imprevedibile vantaggio
Il corpo delle donne e la censura: da Ida Dalser a Cindy Sherman
MUZZARELLI, FEDERICA
2015
Abstract
La dimensione della corporalità è da sempre, da un punto di vista culturale come da quello filosofico e infine religioso, associata al mondo al femminile. In questo senso il corpo delle donne è stato tradizionalmente vissuto come l’interfaccia della loro identità: sia che venisse collegato alla realtà mondana e terrena dell’esperienza umana, sia che fosse vincolato alle perversioni del peccato come ai limiti dell’irrazionalità, del disordine, del sentimentalismo. Dagli scritti di Simone de Beauvoir in poi il corpo delle donne è divenuto sinonimo di esperienza, conoscenza, definizione identitaria. E delle donne, si è detto, che sono culturalmente corporee. Così, tenute a margini della cultura ufficiale, le donne hanno spesso “coltivato” quest’isolamento come paradossale campo di rivendicazione di un’autonomia borderline e di un’attiva sperimentazione delle proprie esigenze esistenziali ed estetiche. Quella che avrebbe dovuto, e lo era, essere una condizione d’inferiorità e di frustrazione, di claustrofobia e di negazione, ha così potuto invece costituirsi come un’arma di incredibile vantaggio su chi, gli uomini, erano già allineati al sistema, al sistema appartenevano naturalmente e culturalmente. Ma quando la rimozione che la cultura occidentale aveva effettuato nei confronti del gesto e del corpo subisce un ribaltamento, e questo avverrà in specie a partire dall’estetica novecentesca (fenomenologica in primis e con il suo apice in autori quali John Dewey e Maurice Merleau-Ponty), allora la dimestichezza e la familiarità delle donne con le dinamiche del corpo le predisporrà quasi in posizione di imprevedibile vantaggioI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.