I codici di internal dealing sono generalmente volti a rendere trasparente l’attività di trading degli insiders sui propri titoli. Tale tema, sebbene riconducile agli obblighi informativi e alla trasparenza verso il mercato, si colloca nell’ambito degli studi sull’insider trading e l’efficienza del mercato azionario. Una delle proposizioni principali enunciate nell’ambito della finanza è stata l’Efficient Capital Market Hypothesis (Fama, 1970). Un mercato dei capitali è informativamente efficiente se stabilisce i prezzi correttamente utilizzando in ciascun momento tutta l’informazione disponibile. In generale, sono definiti tre livelli di efficienza di mercato: debole, semi-forte, forte. Nel primo e secondo livello i prezzi incorporano rispettivamente le informazioni contenute nelle serie storiche degli stessi e tutta l’informazione corrente pubblicamente disponibile. Nel terzo livello di efficienza, i prezzi riflettono non solo tutte le informazioni passate e pubblicamente disponibili ma anche quelle ottenibili tramite un’accurata analisi dell’impresa e dell’economia nel suo complesso. L’ipotesi di efficienza in senso forte, in particolare, rappresenta la base di qualsiasi indagine compiuta in materia di insider trading: se, ad esempio, nell’ambito di un mercato finanziario alcuni investitori dispongono di informazioni maggiori rispetto al mercato e sono in grado grazie a queste di ottenere rendimenti anomali è violata l’ipotesi di efficienza in senso forte. Sin dall’inizio quest’ultima è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche che, però, hanno prodotto risultati contraddittori. Per quel che riguarda il mercato americano, mentre i risultati degli studi di Kerr (1980), Holderness e Sheehan (1985), Lin e Howe (1990) sostengono l’ipotesi di efficienza forte, Jaffe (1974), Seyhun (1986), Madura e Wiant (1995) trovano extra–rendimenti a favore degli insider. Le divergenze che caratterizzano questi risultati non sempre sono facilmente spiegabili anche se si può pensare che siano determinate dalle differenze riscontrabili nelle metodologie usate, nell’orizzonte temporale scelto e nelle caratteristiche del mercato analizzato. In generale, le ricerche empiriche in materia di insider trading possono essere suddivise in cinque principali categorie: studi relativi sia a transazioni lecite sia a transazioni illecite compiute dall’insider in corrispondenza di un particolare evento come un take-over (Eysell e Arshadi, 1993), come la sostituzione dell’amministratore delegato (Niehaus e Roth, 1999), come l’emissione di nuove azioni (Gombola e altri, 1999), come la diffusione di previsioni relative all’andamento della società (Penman, 1985), come l’annuncio dello stacco di un dividendo (John e Lang, 1991); ricerche che indagano la capacità delle informazioni di influenzare la formazione dei prezzi (Meulbroek, 1992, Veronesi 2000); studi relativi al contenuto informativo degli scambi effettuati dagli insider (Rozeff e Zaman, 1988); discussioni sulle caratteristiche di un’ideale regolamentazione in materia di insider trading (Haddock e Macey, 1987) ed, infine, ricerche sul ruolo giocato dal volume degli scambi sull’autocorrelazione dei prezzi. In realtà, la maggior parte degli autori ha focalizzato la propria attenzione sul primo gruppo di ricerche suddiviso, a sua volta, in due diversi approcci. Il primo di questi analizza l’insieme delle transazioni compiute dagli insider; il secondo considera l’insieme delle transazioni illegali registrate dall’Organo di Vigilanza operante nel paese oggetto di studio. Nell’ambito del primo approccio, relativamente al mercato americano Rogoff (1964) e Glass (1996) mostrano che gli insider all’interno della loro società sono in grado di individuare sia le situazioni profittevoli sia quelle non profittevoli. Lorie e Niederhoffer (1968), d’altra parte, verificano che gli scambi effettuati dai manager, dai direttori e da coloro che possiedono almeno il 10% del capitale di una società anticipano ...

Il codice Italiano di Internal Dealing e il comportamento degli amministratori delle società italiane. PRIN. Responsabile Unità di Ricerca di Bologna

BIGELLI, MARCO
2004

Abstract

I codici di internal dealing sono generalmente volti a rendere trasparente l’attività di trading degli insiders sui propri titoli. Tale tema, sebbene riconducile agli obblighi informativi e alla trasparenza verso il mercato, si colloca nell’ambito degli studi sull’insider trading e l’efficienza del mercato azionario. Una delle proposizioni principali enunciate nell’ambito della finanza è stata l’Efficient Capital Market Hypothesis (Fama, 1970). Un mercato dei capitali è informativamente efficiente se stabilisce i prezzi correttamente utilizzando in ciascun momento tutta l’informazione disponibile. In generale, sono definiti tre livelli di efficienza di mercato: debole, semi-forte, forte. Nel primo e secondo livello i prezzi incorporano rispettivamente le informazioni contenute nelle serie storiche degli stessi e tutta l’informazione corrente pubblicamente disponibile. Nel terzo livello di efficienza, i prezzi riflettono non solo tutte le informazioni passate e pubblicamente disponibili ma anche quelle ottenibili tramite un’accurata analisi dell’impresa e dell’economia nel suo complesso. L’ipotesi di efficienza in senso forte, in particolare, rappresenta la base di qualsiasi indagine compiuta in materia di insider trading: se, ad esempio, nell’ambito di un mercato finanziario alcuni investitori dispongono di informazioni maggiori rispetto al mercato e sono in grado grazie a queste di ottenere rendimenti anomali è violata l’ipotesi di efficienza in senso forte. Sin dall’inizio quest’ultima è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche che, però, hanno prodotto risultati contraddittori. Per quel che riguarda il mercato americano, mentre i risultati degli studi di Kerr (1980), Holderness e Sheehan (1985), Lin e Howe (1990) sostengono l’ipotesi di efficienza forte, Jaffe (1974), Seyhun (1986), Madura e Wiant (1995) trovano extra–rendimenti a favore degli insider. Le divergenze che caratterizzano questi risultati non sempre sono facilmente spiegabili anche se si può pensare che siano determinate dalle differenze riscontrabili nelle metodologie usate, nell’orizzonte temporale scelto e nelle caratteristiche del mercato analizzato. In generale, le ricerche empiriche in materia di insider trading possono essere suddivise in cinque principali categorie: studi relativi sia a transazioni lecite sia a transazioni illecite compiute dall’insider in corrispondenza di un particolare evento come un take-over (Eysell e Arshadi, 1993), come la sostituzione dell’amministratore delegato (Niehaus e Roth, 1999), come l’emissione di nuove azioni (Gombola e altri, 1999), come la diffusione di previsioni relative all’andamento della società (Penman, 1985), come l’annuncio dello stacco di un dividendo (John e Lang, 1991); ricerche che indagano la capacità delle informazioni di influenzare la formazione dei prezzi (Meulbroek, 1992, Veronesi 2000); studi relativi al contenuto informativo degli scambi effettuati dagli insider (Rozeff e Zaman, 1988); discussioni sulle caratteristiche di un’ideale regolamentazione in materia di insider trading (Haddock e Macey, 1987) ed, infine, ricerche sul ruolo giocato dal volume degli scambi sull’autocorrelazione dei prezzi. In realtà, la maggior parte degli autori ha focalizzato la propria attenzione sul primo gruppo di ricerche suddiviso, a sua volta, in due diversi approcci. Il primo di questi analizza l’insieme delle transazioni compiute dagli insider; il secondo considera l’insieme delle transazioni illegali registrate dall’Organo di Vigilanza operante nel paese oggetto di studio. Nell’ambito del primo approccio, relativamente al mercato americano Rogoff (1964) e Glass (1996) mostrano che gli insider all’interno della loro società sono in grado di individuare sia le situazioni profittevoli sia quelle non profittevoli. Lorie e Niederhoffer (1968), d’altra parte, verificano che gli scambi effettuati dai manager, dai direttori e da coloro che possiedono almeno il 10% del capitale di una società anticipano ...
2004
Bigelli M.
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