Nell'introduzione del volume, pubblicato sulla collana "Sociologia urbana e rurale" della Franco Angeli (collana peer reviewed), si mette in evidenza come la bioarchitettura sia «l’insieme delle discipline che attuano e presuppongono un atteggiamento ecologicamente corretto nei confronti dell’ecosistema ambientale. In una visione caratterizzata dalla più ampia interdisciplinarietà e da un utilizzo razionale e ottimale delle risorse, la Bioarchitettura tende alla conciliazione ed integrazione delle attività e dei comportamenti umani con le preesistenze ambientali ed i fenomeni naturali. Ciò al fine di realizzare un miglioramento della qualità della vita attuale e futura». Questa è la definizione dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura , che sottolinea inoltre come l’elemento innovativo non risieda «nella specificità delle singole discipline, quanto nelle connessioni capaci di determinare una visione olistica del territorio e della qualità architettonica». Qualsiasi progetto architettonico va quindi inquadrato e rivolto alla qualità del vivere sociale, al rispetto del senso di appartenenza dei suoi abitanti e fruitori e alla salvaguardia del loro mondo di relazioni. La prima parte di questo volume approfondisce proprio il “posto nel mondo” della bioarchitettura, riprendendo alcune premesse da cui parte; tra queste la costruzione di relazioni e l’alfabetizzazione ecologica. Anticipa inoltre alcuni modi in cui la bioarchitettura può svilupparsi e si sta sviluppando, modi che saranno poi approfonditi nella seconda parte del volume. L’esigenza di bioarchitettura, e quindi di perseguire la sostenibilità attraverso di essa, è evidenziata chiaramente da Wittfrida Mitterer nel primo contributo del volume; l’autrice parla infatti di “costruire contesto”, intendendo appunto la bioarchitettura come strumento e opportunità per rendere le relazioni umane più facili. Per fare questo serve indubbiamente la competenza tecnica, ma è altrettanto importante la partecipazione di chi usufruirà del progetto architettonico stesso. Viene inoltre ribadita l’importanza della suddetta alfabetizzazione ecologica. L’autrice sottolinea che un progetto deve essere “ecologico” da diversi punti di vista: deve essere teso a migliorare la qualità dell’ambiente e della vita senza esibizionismi né sprechi di risorse, ma deve anche essere capace di coinvolgersi positivamente nella realtà a tutti i livelli, rendendo perseguibile il ri-spetto per le persone e la loro aggregazione. Un contributo sociologico arriva da Domenico De Masi, che delinea alcuni elementi dello scenario socio-culturale nella città da qui al 2020. Riassumendo le previsioni discusse da un panel di esperti di varie discipline, l’autore propone dieci punti chiave: la longevità, la tecnologia, l’economia, il lavoro, il tempo libero, l’ubiquità, l’androginia, l’etica, l’estetica e la cultura. Un elemento che sembra accomunare ambiti tanto diversi è la costante crescita di conoscenze e tecnologie a cui non necessariamente consegue un adeguato utilizzo né tantomeno un’attenzione alle risorse ambientali. Questo problema diventa quindi una sfida per il presente e per il futuro, come sottolineato anche dai tre contributi successivi, tutti scritti da studiosi delle “scienze dure”. Fritjof Capra sottolinea l’importanza del concetto di rete e della creazione e ricreazione di relazioni, importanza che vale tanto per i processi fisici e chimici quanto per quelli comunicativi che caratterizzano la nostra società. Riguardo a quest’ultima, Capra ricorda il capitalismo globale e le comunità sostenibili basate sull’eco-design, portandoli rispettivamente come esempio negativo e positivo del grande cambiamento avvenuto negli ultimi decenni. Prendere atto di questo cambiamento è il primo passo per un modo di vivere più ecologico. Anche Federico Butera evidenzia la necessità di un cambiamento radicale e immediato, e lo fa “partendo dalle scintille”, partendo cioè dai dati sulle emissioni, da ciò che servirebbe fare per invertire la tendenza all’inquinamento e da ciò che prevedono accordi e istituzioni internazionali. Attraverso una serie di provocazioni constata l’insostenibilità del nostro stile di vita e di consumo in tutti i settori, dai trasporti all’alimentazione. Visto il quadro, parlare di sviluppo e di città sostenibile è non solo e non tanto una scelta, ma un obbligo per sopravvivere. Anche il contributo di Ingo Gabriel si sofferma su limiti e contraddizioni del modello di sviluppo attuale, criticando la crescita per come è stata intesa finora, e criticando soprattutto l’equazione che è sempre stata fatta tra questa e una più alta qualità della vita. Nella sua analisi troviamo anche critiche più puntuali, come quella alle scelte abitative orientate a grandi metrature; agognate da molti come biglietto d’ingresso a uno stile di vita (per dirla come Rifkin), esse si rivelano spesso una delusione e soprattutto una grande fonte di spreco energetico. L’invito implicito è quindi quello a costruire di meno e ottimizzare maggiormente. Se questo è il quadro allarmante in cui ci muoviamo, la bioarchitettura è una delle strade per mettere in pratica un nuovo paradigma che implica il problema di conoscere e diffondere l’alfabetizzazione ecologica; a questo tema sono riconducibili i contributi di Giannozzo Pucci, Lucien Kroll e Massimo Pica Ciamarra. Pucci si sofferma sul problema di comunicare l’ecologia, ricordando che l’alfabetizzazione passa dalle scuole, nonché da una “rivoluzione” che si riappropria del saper fare e della cultura materiale; quest’ultima è da intendersi come legame con la tradizione artigiana e contadina del nostro Paese, come ritorno a una simbiosi con le proprie origini e la natura stessa. Anche Kroll si sofferma sull’alfabetizzazione, in modo ancora più aspro e polemico di Pucci; critica infatti tante contraddizioni dell’età globale, dai suoi squilibri agli egoismi che la caratterizzano. La critica è resa più amara dalla constatazione che abbiamo già le conoscenze tecniche per cambiare stile di architettura e di vita; anche i buoni esempi di sostenibilità esistono (Kroll ricorda il quartiere di La Haye in Olanda), ma sono ancora eccezioni e non regole. Ancora una volta, quindi, è questione di volontà politica più che di progresso tecnologico. L’ecologia umanista sembra l’unica strada per rafforzare questa volontà, e l’eco-alfabetizzazione il percorso obbligato per favorirla. Essa rimanda a un cambiamento che l’autore definisce filosofico: meno razionalismo e più incrementalismo, assecondando la natura anziché tentare di dominarla. Il contributo di Pica Ciamarra tocca il tema dal punto di vista della qualità dell’architettura e soprattutto della cultura del progettare. L’alfabetizzazione ecologica passa anche dal riconoscere la necessità di relazionare gli edifici tra loro e questi con l’ambiente e soprattutto con chi li abiterà. Fenomeni come villettopoli e l’urban sprawl sono anche il risultato di aver ignorato totalmente questi aspetti, inseguendo un ideale di habitat urbano tanto egoista quanto insostenibile. Gli ultimi tre capitoli fanno da trait d’union tra la prima e la seconda parte del volume; sebbene non si tratti di presentazioni dettagliate di buone pratiche, i contributi di Luca Zevi, Joern Copijn e Tulio Marcelli danno comunque una serie di indicazioni operative su modalità e settori in cui la bioarchitettura può trovare applicazione. Zevi approfondisce il rapporto tra bioarchitettura e urbanizzazione, ricordando come il pensiero urbanistico abbia subito a lungo il fascino della megalopoli, per approdare poi a una non meglio definita necessità di densificazione. Zevi si sofferma su un recente progetto sul Mar Nero: una città strutturata in due assi che si intersecano (denominati asse della crescita e asse della conoscenza), che avrà una morfologia reticolare e sarà incentrata sull’uso delle energie rinnovabili in contrapposizione alla superconcentrazione insediativa propria dell’“era petrolifera”. Anche Copijn perora la causa dell’ecologia partendo dalla sua pluridecennale attività di gestione degli spazi verdi e del suo sfruttamento a fini non solo paesaggistici ma anche e soprattutto ambientali. Soluzioni come la piantumazione e l’inverdimento di tetti mostrano come le piante siano una delle armi più potenti a nostra disposizione per mitigare le emissioni e altri effetti dell’inquinamento. Marcelli, infine, si sofferma sulla promozione della cultura della sostenibilità ambientale attraverso un’agricoltura con tecniche ecocompatibili, tese al mantenimento della biodiversità e degli habitat naturali. “Produrre con le proprie mani”, tuttavia, significa anche garantire un’offerta di prodotti tipici trasformati sul luogo di origine stesso attraverso un processo documentabile in cui entrano fattori umani ed ambientali, legati alla particolarità del territorio ed alla sua storia. L’iniziativa Campagna Amica di Coldiretti è un esempio in questo senso.
Manella G (2013). Tra costruzione di relazioni e alfabetizzazione ecologica: il posto della bioarchitettura. Milano : Editore Franco Angeli.
Tra costruzione di relazioni e alfabetizzazione ecologica: il posto della bioarchitettura
MANELLA, GABRIELE
2013
Abstract
Nell'introduzione del volume, pubblicato sulla collana "Sociologia urbana e rurale" della Franco Angeli (collana peer reviewed), si mette in evidenza come la bioarchitettura sia «l’insieme delle discipline che attuano e presuppongono un atteggiamento ecologicamente corretto nei confronti dell’ecosistema ambientale. In una visione caratterizzata dalla più ampia interdisciplinarietà e da un utilizzo razionale e ottimale delle risorse, la Bioarchitettura tende alla conciliazione ed integrazione delle attività e dei comportamenti umani con le preesistenze ambientali ed i fenomeni naturali. Ciò al fine di realizzare un miglioramento della qualità della vita attuale e futura». Questa è la definizione dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura , che sottolinea inoltre come l’elemento innovativo non risieda «nella specificità delle singole discipline, quanto nelle connessioni capaci di determinare una visione olistica del territorio e della qualità architettonica». Qualsiasi progetto architettonico va quindi inquadrato e rivolto alla qualità del vivere sociale, al rispetto del senso di appartenenza dei suoi abitanti e fruitori e alla salvaguardia del loro mondo di relazioni. La prima parte di questo volume approfondisce proprio il “posto nel mondo” della bioarchitettura, riprendendo alcune premesse da cui parte; tra queste la costruzione di relazioni e l’alfabetizzazione ecologica. Anticipa inoltre alcuni modi in cui la bioarchitettura può svilupparsi e si sta sviluppando, modi che saranno poi approfonditi nella seconda parte del volume. L’esigenza di bioarchitettura, e quindi di perseguire la sostenibilità attraverso di essa, è evidenziata chiaramente da Wittfrida Mitterer nel primo contributo del volume; l’autrice parla infatti di “costruire contesto”, intendendo appunto la bioarchitettura come strumento e opportunità per rendere le relazioni umane più facili. Per fare questo serve indubbiamente la competenza tecnica, ma è altrettanto importante la partecipazione di chi usufruirà del progetto architettonico stesso. Viene inoltre ribadita l’importanza della suddetta alfabetizzazione ecologica. L’autrice sottolinea che un progetto deve essere “ecologico” da diversi punti di vista: deve essere teso a migliorare la qualità dell’ambiente e della vita senza esibizionismi né sprechi di risorse, ma deve anche essere capace di coinvolgersi positivamente nella realtà a tutti i livelli, rendendo perseguibile il ri-spetto per le persone e la loro aggregazione. Un contributo sociologico arriva da Domenico De Masi, che delinea alcuni elementi dello scenario socio-culturale nella città da qui al 2020. Riassumendo le previsioni discusse da un panel di esperti di varie discipline, l’autore propone dieci punti chiave: la longevità, la tecnologia, l’economia, il lavoro, il tempo libero, l’ubiquità, l’androginia, l’etica, l’estetica e la cultura. Un elemento che sembra accomunare ambiti tanto diversi è la costante crescita di conoscenze e tecnologie a cui non necessariamente consegue un adeguato utilizzo né tantomeno un’attenzione alle risorse ambientali. Questo problema diventa quindi una sfida per il presente e per il futuro, come sottolineato anche dai tre contributi successivi, tutti scritti da studiosi delle “scienze dure”. Fritjof Capra sottolinea l’importanza del concetto di rete e della creazione e ricreazione di relazioni, importanza che vale tanto per i processi fisici e chimici quanto per quelli comunicativi che caratterizzano la nostra società. Riguardo a quest’ultima, Capra ricorda il capitalismo globale e le comunità sostenibili basate sull’eco-design, portandoli rispettivamente come esempio negativo e positivo del grande cambiamento avvenuto negli ultimi decenni. Prendere atto di questo cambiamento è il primo passo per un modo di vivere più ecologico. Anche Federico Butera evidenzia la necessità di un cambiamento radicale e immediato, e lo fa “partendo dalle scintille”, partendo cioè dai dati sulle emissioni, da ciò che servirebbe fare per invertire la tendenza all’inquinamento e da ciò che prevedono accordi e istituzioni internazionali. Attraverso una serie di provocazioni constata l’insostenibilità del nostro stile di vita e di consumo in tutti i settori, dai trasporti all’alimentazione. Visto il quadro, parlare di sviluppo e di città sostenibile è non solo e non tanto una scelta, ma un obbligo per sopravvivere. Anche il contributo di Ingo Gabriel si sofferma su limiti e contraddizioni del modello di sviluppo attuale, criticando la crescita per come è stata intesa finora, e criticando soprattutto l’equazione che è sempre stata fatta tra questa e una più alta qualità della vita. Nella sua analisi troviamo anche critiche più puntuali, come quella alle scelte abitative orientate a grandi metrature; agognate da molti come biglietto d’ingresso a uno stile di vita (per dirla come Rifkin), esse si rivelano spesso una delusione e soprattutto una grande fonte di spreco energetico. L’invito implicito è quindi quello a costruire di meno e ottimizzare maggiormente. Se questo è il quadro allarmante in cui ci muoviamo, la bioarchitettura è una delle strade per mettere in pratica un nuovo paradigma che implica il problema di conoscere e diffondere l’alfabetizzazione ecologica; a questo tema sono riconducibili i contributi di Giannozzo Pucci, Lucien Kroll e Massimo Pica Ciamarra. Pucci si sofferma sul problema di comunicare l’ecologia, ricordando che l’alfabetizzazione passa dalle scuole, nonché da una “rivoluzione” che si riappropria del saper fare e della cultura materiale; quest’ultima è da intendersi come legame con la tradizione artigiana e contadina del nostro Paese, come ritorno a una simbiosi con le proprie origini e la natura stessa. Anche Kroll si sofferma sull’alfabetizzazione, in modo ancora più aspro e polemico di Pucci; critica infatti tante contraddizioni dell’età globale, dai suoi squilibri agli egoismi che la caratterizzano. La critica è resa più amara dalla constatazione che abbiamo già le conoscenze tecniche per cambiare stile di architettura e di vita; anche i buoni esempi di sostenibilità esistono (Kroll ricorda il quartiere di La Haye in Olanda), ma sono ancora eccezioni e non regole. Ancora una volta, quindi, è questione di volontà politica più che di progresso tecnologico. L’ecologia umanista sembra l’unica strada per rafforzare questa volontà, e l’eco-alfabetizzazione il percorso obbligato per favorirla. Essa rimanda a un cambiamento che l’autore definisce filosofico: meno razionalismo e più incrementalismo, assecondando la natura anziché tentare di dominarla. Il contributo di Pica Ciamarra tocca il tema dal punto di vista della qualità dell’architettura e soprattutto della cultura del progettare. L’alfabetizzazione ecologica passa anche dal riconoscere la necessità di relazionare gli edifici tra loro e questi con l’ambiente e soprattutto con chi li abiterà. Fenomeni come villettopoli e l’urban sprawl sono anche il risultato di aver ignorato totalmente questi aspetti, inseguendo un ideale di habitat urbano tanto egoista quanto insostenibile. Gli ultimi tre capitoli fanno da trait d’union tra la prima e la seconda parte del volume; sebbene non si tratti di presentazioni dettagliate di buone pratiche, i contributi di Luca Zevi, Joern Copijn e Tulio Marcelli danno comunque una serie di indicazioni operative su modalità e settori in cui la bioarchitettura può trovare applicazione. Zevi approfondisce il rapporto tra bioarchitettura e urbanizzazione, ricordando come il pensiero urbanistico abbia subito a lungo il fascino della megalopoli, per approdare poi a una non meglio definita necessità di densificazione. Zevi si sofferma su un recente progetto sul Mar Nero: una città strutturata in due assi che si intersecano (denominati asse della crescita e asse della conoscenza), che avrà una morfologia reticolare e sarà incentrata sull’uso delle energie rinnovabili in contrapposizione alla superconcentrazione insediativa propria dell’“era petrolifera”. Anche Copijn perora la causa dell’ecologia partendo dalla sua pluridecennale attività di gestione degli spazi verdi e del suo sfruttamento a fini non solo paesaggistici ma anche e soprattutto ambientali. Soluzioni come la piantumazione e l’inverdimento di tetti mostrano come le piante siano una delle armi più potenti a nostra disposizione per mitigare le emissioni e altri effetti dell’inquinamento. Marcelli, infine, si sofferma sulla promozione della cultura della sostenibilità ambientale attraverso un’agricoltura con tecniche ecocompatibili, tese al mantenimento della biodiversità e degli habitat naturali. “Produrre con le proprie mani”, tuttavia, significa anche garantire un’offerta di prodotti tipici trasformati sul luogo di origine stesso attraverso un processo documentabile in cui entrano fattori umani ed ambientali, legati alla particolarità del territorio ed alla sua storia. L’iniziativa Campagna Amica di Coldiretti è un esempio in questo senso.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.