Traduzione italiana del testo: Stimolante ed incisiva, questa raccolta di scritti di TatjanaSekulic, usciti nell’arco di due decenni fra il 1992 e il 2012, non affronta solo il dramma della frantumazione jugoslava e, al suo interno, la tragedia della Bosnia-Erzegovina con le sue implicazioni locali e regionali, ma esprime anche una profonda frustrazione intellettuale, che ha evidenti risvolti politici pratici. Nei primi saggi di questo volume, infatti, il lettore – anche quello interessato a cogliere solo gli aspetti più generali dell’ultimo conflitto europeo –viene indotto dall’autrice a riflettere sulle principali dinamiche che hanno spinto varie élite, intellettuali e politiche, a favorire la diffusione di opposti nazionalismi, fino a provocare la dissoluzione della federazione jugoslava. Quindi, la narrazionesi sposta sugli effetti del conflitto, sulla struttura razionale di azioni belliche che hanno incluso il ricorso al genocidio, allo stupro, alla deportazione di massa per raggiungere un obiettivo politico altrimenti (diciamolo chiaramente) irrealizzabile: ossia, la creazione di stati etno-nazionali privi di minoranze, o con minoranze drasticamente ridimensionate in termini demografici e culturalmente sospinte ai margini della società. All’analisi di tali comportamenti che hanno, alla fine e non senza resistenze, prodotto controversi interventi militari internazionali e la costituzione del Tribunale penale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (ICTY), TatjanaSekulic fa seguire le sue riflessioni sui processi di migrazione forzata verificatisi sia in ambito regionale, sia nel resto dell’Europa; sui tratti ambigui e non risolutivi dei trattati di pace, almeno per quanto riguarda la funzionalità delle istituzioni; sulla creazione, infine, di sistemi educativi e di una manualistica scolastica sostanzialmente coerenti con una cultura della divisione e della contrapposizione di gruppo. Tutto ciò costituisce una fotografia critica e, appunto, incisiva, dei processi che hanno caratterizzato lo spazio culturale jugoslavo dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ma – come si diceva poc’anzi – tale fotografia trasmette anche una frustrazione intellettuale che non è certo prerogativa solo dell’autrice di questo volume; al contrario,si tratta di un sentimento presente fra gli studiosi del Sud-Est europeo,riferito in particolare adun tema di scottante attualità che, tuttavia, viene per lo più ignorato o sminuito dai media, dal personale politico e amministrativo e da una buona parte della società democratica euro-atlantica. Intendo riferirmi alla sottovalutazione delle motivazioni di fondo che hanno condotto le tre federazioni socialiste europee a dissolversi nel momento dell’avvio della transizione politica verso la democrazia liberale. Nello specifico, una di queste, ossia quella jugoslava, ha conosciuto una lunga fase di violenze, durata almeno un decennio (dal 1991 al 2001) e la suastabilizzazione postbellica non sembra essere ancora del tutto assicurata. Ora, nella sua introduzione al libro, TatjanaSekulic si domanda se esista una “reale idoneità dei modelli europei di Stato nazionale, nei casi complessi delle società multietniche”. Nello svolgere del suo ragionamento, di lì a poco, l’autrice si dice convinta che sia stata la mancanza di democrazia ad impedire al socialismo (anche jugoslavo) di produrre integrazione, e quindi resistenza al disfacimento della sfera politica, per concludere poi che le “società multietniche e plurinazionali… possono formare nessi integrativi forti soltanto nelle forme politiche e sociali di una democrazia liberale”. Il punto è che, fra il 1989 e il 1992 proprio questo non è successo. Le democrazie liberali, infatti, non hanno voluto, o saputo offrire un modello di riferimento convincente alle società plurinazionali socialiste allorché sono entrate in una fase di profonda trasformazione sociale, politica, economica e culturale, né le hanno incoraggiate a svilupparsi democraticamente in questa direzione. Nel caso estremo della Jugoslavia non fu neppure chiesto a questo paese di organizzare libere elezioni a livello federale, ritenendo evidentemente sufficienti quelle repubblicane, come volevano le élites locali. E se fu tutto sommato agevole ai gruppi parlamentari di maggioranza relativa della Boemia-Moravia e della Slovacchia concordare pacificamente la divisione della Cecoslovacchia, mentre la stessa Unione Sovietica è riuscita a dissolversi contenendo le manifestazioni di violenza in situazioni sostanzialmente periferiche, non bisogna mai dimenticare che in Jugoslavia i contendenti non erano solo 2, ma almeno 7; inoltre, nessuno di loro possedeva la bomba atomica (come fattore di deterrenza: cosa, questa, che in effetti funzionò fra Russia e Ucraina) e, soprattutto, Cecoslovacchia e spazio ex sovietico, frantumatisi cronologicamente dopo la Jugoslavia, potevano ben guardarsi nello specchio di fronte al conflitto esploso in quel Paese, sapendo che l’estremizzazione della mobilitazione nazionale avrebbe condotto inevitabilmente a quel risultato. In tutto questo, però, la democrazia liberale c’entra poco o punto. Essa è stata, anzi, un inadeguato e impotente spettatore. Perché? Ecco l’interrogativo che serpeggia in tutti i saggi raccolti in questo volume e la risposta gradatamente emerge dalle analisi sia dall’ampia letteratura sul nazionalismo menzionata nelle pagine che seguono, sia dagli studi dedicati allo spazio culturale jugoslavo svolti nel corso degli anni da Sekulic,così come da altri autori.Tale risposta andrebbe individuatanella tramontatafunzione positiva del modello di Stato-Nazione, liberale o meno che sia. Pur tra mille contraddizioni,e con la tragedia della shoah sulle proprie spalle, in quanto manifestazione inerente ad una visione etnico-razzista, lo Stato-Nazione ha reso possibile, nell’arco di un paio di secoli, l’inclusione delle popolazioni di un determinato territorio nella selezione attiva delle élite, ne ha favorito l’istruzione di base e il benessere sociale ed economico. Spezzando il legame fra la divinità e il principe, come forma di legittimazione del potere, esso ha innescato un processo, complesso e difficile, ma che – specialmente dopo la seconda guerra mondiale – ha reso evidenti i suoi frutti,una volta avviata la liquefazione dei preesistenti modelli di dipendenza e delle forme di comunicazione fondate sulla famiglia “tradizionale”, su rigidi ceti sociali, su relazioni gerarchiche di genere … Se nonché, tali effetti non si sono solo verificati nelle democrazie liberali, ma anche in quelle socialiste, dove la modernizzazione ha comunque seguito il suo percorso, pur con tratti talvolta propri e originali, come ci racconta Sekulic. Sicché, al momento della disgregazione delle società socialiste lo Stato-Nazione liberale non ha saputo proporre una visione democratica multinazionale semplicemente perché questa era in contrasto con i suoi tratti strutturali, mentre le élite nazionaliste dei paesi socialisti hanno visto nell’etnia e nella omogeneità dello Stato-Nazione tanto il modo più rapido per mobilitare consensi e liberarsi del socialismo, quanto la modalità ritenuta più sicura per mantenersi al potere e assicurare (illudendosi) forme più solide di sviluppo economico e sociale attraverso politiche esclusiviste, sapendo altresì di poter contare su una cultura dello Stato condivisa – nella sostanza – dalle élite politiche occidentali. A conferma di tale convergenza basti qui ricordare i numerosi tentativi di mediazione euro-americani fra le varie rivendicazioni territoriali a sfondo etno-nazionale dei vari leader jugoslavi verificatisi già ai tempi della conferenza di Londra, e successivamente perseguiti dalla diplomazia internazionale negli anni successivi. In questo senso, l’accordo di Dayton e la Costituzione della Bosnia-Erzegovina (con 2 entità, 10 cantoni, un distretto ecc. ecc.) possono essere considerati il “capolavoro” di tale paradossale compromissione del liberalismo con lo stato etno-nazionale, in cui prospettive civiche ed etniche si sono intrinsecamente confuse, dando una patina di legittimità ai signori della guerra, pur nella condanna internazionale del ricorso alla violenza,espressa in particolare conil richiamo alla giustizia e l’istituzione dello ICTY. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Per rimediare, e pur non senza resistenze, fra il 2000 e il 2003 le democrazie liberali dell’Occidente hanno finito con il convenire che l’unica soluzione realisticamente stabilizzante andasse individuata nell’integrazione europea, ossia in un modello istituzionale incompiuto, ma che tuttaviatrascende lo Stato-Nazione. Salvo poi – a causa dei falliti referendum sul trattato costituzionale europeo del 2005, della crisi economica iniziata nel 2007 e dei timori d’interazione generati dalla globalizzazione, nonché dalla mobilità delle popolazioni (incluso Schengen) – tornare in parte sui propri passi, almeno per quanto concerne l’approfondimento dell’integrazione: tenaci resistenze da parte degli Stati membri hanno teso di recente a riaffermare il ruolo dominante dello Stato-Nazione all’interno della stessa UE, in realtà producendo inefficienze nella governance e incertezze politico-economiche sul futuro del Continente, con inevitabili riverberi nel Sud-Est Europeo, ancora alla ricerca di un consolidamento post-bellico, mentre neonazionalismi, xenofobia e razzismi diffondono vecchie/nuove forme di rifiuto dell’altro un po’ ovunque in Europa. Un nodo davvero dirimente – su cui manca ancora una riflessione compiuta – starebbe, quindi, nel fatto che dopo l’89 non è solo venuta meno in Europa l’opzione socialista, ma si è anche prodotto un mutamento capitale nella composizione sociale degli Stati esistenti,tale da mettere in liquidazione l’omogeneità nazionale. Governare l’eterogeneità è diventato,dunque, un imperativo politico prioritario per la democrazia, in termini tanto strutturali, economici e istituzionali, quanto culturali, linguistici, educativi ed empatici. Di conseguenza, si sono aperte nuove frontiere per lo sviluppo democratico, lungo però percorsi separati dallo Stato-Nazione, dopo due secoli di vicinanza e interazione. In questo quadro si comprende perché la mancata trasformazione democratica delle federazioni socialiste abbia rappresentato un aspetto cruciale nel complesso passaggio fra modernità e post-modernità,che le scienze sociali dovrebbero studiare approfonditamente e che i media e le élite politiche non dovrebbero snobbare o sottovalutare, tanto più in quando a tale esito si è giunti al termine di un tragitto segnato tanto da una lunga crisi economica (che le istituzioni esistenti non furono in grado di affrontare efficacemente), quanto dall’affermarsi di una diffusa, e irrazionale, paura della diversità. Intanto, a pochi anni di distanza da quei drammatici eventi – grazie al massiccio allargamento ad Est della UE e all’incedere della globalizzazione –, diversità, sviluppo e democrazia sono diventati tre aspetti fondamentali del processo di integrazione europeo. In altre parole, le sedimentate identità nazionali si trovano a dover fare i conti con la diffusione di meticciati e ibridismi;con nuove relazioni di genere;nuovi nomadismi;una visione plurale e differenziata della famiglia; un superamento della omogeneità religiosa in società politiche vieppiù caratterizzate dal moltiplicarsi di convinzioni e prescrizioni religiose, nonché di rivendicazioni laiche e di rispetto dei non credenti;con una cultura – infine – della convivenza in cui tutti sono, in una forma o nell’altra, minoranza. Resta da vedere se, e in quale misura, tali sedimentate identità nazionali sapranno adeguarsi al mutamento dei tempi. D’altra parte, elementi fondanti delle differenze (dal pluralismo religioso al meticciato, dal nomadismo linguistico-culturale ai cambiamenti delle relazioni di genere) erano già presenti o in corso di sviluppo nelle società plurinazionali socialiste, che pertanto non erano strutturalmente compatibili con l’omogeneità nazionale propagandata dalle democrazie occidentali. Di conseguenza, studiarne le caratteristiche,insieme ai limiti e alle ragioni della loro crisi,uscendo dalle ristrette interpretazioni di stampo ideologico (come invece è accaduto, sia pure comprensibilmente, negli anni seguiti alla caduta del muro di Berlino), costituisce un’occasione unica per riflettere non solo su un’esperienza sociale e di governo, ma anche sulla fallita interazione fra liberalismo democratico e transizione post-socialista in contesti plurinazionali; un’occasione, questa, che può fornire altresì utili indicazioni, anche pratiche, su come indirizzare gli sviluppi sociali democratici in contesti sempre più meticci e neo-nomadici, in cui la solidificazione di sangue e territorio (tipica dello Stato-Nazione) sta ormai svanendo di fronte alla fluidità dei poteri delle potenze globali e alla necessità di istituzioni adeguate, come sempre più si sta avvertendo all’interno dell’Unione Europea, non senza contrasti. Il libro di TatjanaSekulic costituisce indubbiamente uno stimolo a ragionare,in questi termini, sulla fine della guerra fredda, nonché su un conflitto – quale quello jugoslavo – che non fu affatto espressione di medioevo, quanto piuttosto anticipazione di dinamiche post-moderne. Leggendoi saggi contenuti in questo volume viene non solo da riflettere sulle vicendenarrate, ma anche da allargare il pensiero alle interazioni che operano attualmente, e influenzano la prospettiva dell’integrazione europea: in Jugoslavia negli anni Ottanta e Novanta, così come nella UE della crisi economico-finanziaria all’inizio del terzo millennio,sono in gioco aspirazioni e frustrazioni di popolazioni culturalmente sincretiche, ma a cui sono stati trasmessi per almeno due secoli (tramite i sistemi educativi nazionali) convinzioni e valori culturali omogeneizzanti, tanto distorcenti del divenire storico, quanto coerenti con la “filosofia della storia” nazionalista e quindi sostanzialmente esclusivisti. Invece, l’inclusività (sociale, culturale, politico-istituzionale, economica) della UE va potenzialmente ben oltre tali limiti e contribuisce ad accelerare il processo di liquefazione del moderno Stato-Nazione.Non è detto, però, che i poteri costituiti, così come quella parte delle popolazioni che teme di essere schiacciata dalla globalizzazione, non decidano di resistere a tali tendenze, generando vecchie/nuove forme di conflitto, i cui tratti potrebbero ricordare proprio quelli che hanno condotto la Jugoslavia alla dissoluzione. Vi è, dunque, materia di riflessione perché l’effetto prodotto in determinate circostanze storiche non si riproduca in altre: e, forse, proprio un sistema democratico capace di andare oltre l’omogeneità nazionale per governare le differenze di una società meticcia (e quindi molto più pregnante del mero multiculturalismo) potrebbe fare la differenza. In positivo.

Predgovor / Bianchini S.. - STAMPA. - (2014), pp. 9-16.

Predgovor

BIANCHINI, STEFANO
2014

Abstract

Traduzione italiana del testo: Stimolante ed incisiva, questa raccolta di scritti di TatjanaSekulic, usciti nell’arco di due decenni fra il 1992 e il 2012, non affronta solo il dramma della frantumazione jugoslava e, al suo interno, la tragedia della Bosnia-Erzegovina con le sue implicazioni locali e regionali, ma esprime anche una profonda frustrazione intellettuale, che ha evidenti risvolti politici pratici. Nei primi saggi di questo volume, infatti, il lettore – anche quello interessato a cogliere solo gli aspetti più generali dell’ultimo conflitto europeo –viene indotto dall’autrice a riflettere sulle principali dinamiche che hanno spinto varie élite, intellettuali e politiche, a favorire la diffusione di opposti nazionalismi, fino a provocare la dissoluzione della federazione jugoslava. Quindi, la narrazionesi sposta sugli effetti del conflitto, sulla struttura razionale di azioni belliche che hanno incluso il ricorso al genocidio, allo stupro, alla deportazione di massa per raggiungere un obiettivo politico altrimenti (diciamolo chiaramente) irrealizzabile: ossia, la creazione di stati etno-nazionali privi di minoranze, o con minoranze drasticamente ridimensionate in termini demografici e culturalmente sospinte ai margini della società. All’analisi di tali comportamenti che hanno, alla fine e non senza resistenze, prodotto controversi interventi militari internazionali e la costituzione del Tribunale penale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (ICTY), TatjanaSekulic fa seguire le sue riflessioni sui processi di migrazione forzata verificatisi sia in ambito regionale, sia nel resto dell’Europa; sui tratti ambigui e non risolutivi dei trattati di pace, almeno per quanto riguarda la funzionalità delle istituzioni; sulla creazione, infine, di sistemi educativi e di una manualistica scolastica sostanzialmente coerenti con una cultura della divisione e della contrapposizione di gruppo. Tutto ciò costituisce una fotografia critica e, appunto, incisiva, dei processi che hanno caratterizzato lo spazio culturale jugoslavo dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ma – come si diceva poc’anzi – tale fotografia trasmette anche una frustrazione intellettuale che non è certo prerogativa solo dell’autrice di questo volume; al contrario,si tratta di un sentimento presente fra gli studiosi del Sud-Est europeo,riferito in particolare adun tema di scottante attualità che, tuttavia, viene per lo più ignorato o sminuito dai media, dal personale politico e amministrativo e da una buona parte della società democratica euro-atlantica. Intendo riferirmi alla sottovalutazione delle motivazioni di fondo che hanno condotto le tre federazioni socialiste europee a dissolversi nel momento dell’avvio della transizione politica verso la democrazia liberale. Nello specifico, una di queste, ossia quella jugoslava, ha conosciuto una lunga fase di violenze, durata almeno un decennio (dal 1991 al 2001) e la suastabilizzazione postbellica non sembra essere ancora del tutto assicurata. Ora, nella sua introduzione al libro, TatjanaSekulic si domanda se esista una “reale idoneità dei modelli europei di Stato nazionale, nei casi complessi delle società multietniche”. Nello svolgere del suo ragionamento, di lì a poco, l’autrice si dice convinta che sia stata la mancanza di democrazia ad impedire al socialismo (anche jugoslavo) di produrre integrazione, e quindi resistenza al disfacimento della sfera politica, per concludere poi che le “società multietniche e plurinazionali… possono formare nessi integrativi forti soltanto nelle forme politiche e sociali di una democrazia liberale”. Il punto è che, fra il 1989 e il 1992 proprio questo non è successo. Le democrazie liberali, infatti, non hanno voluto, o saputo offrire un modello di riferimento convincente alle società plurinazionali socialiste allorché sono entrate in una fase di profonda trasformazione sociale, politica, economica e culturale, né le hanno incoraggiate a svilupparsi democraticamente in questa direzione. Nel caso estremo della Jugoslavia non fu neppure chiesto a questo paese di organizzare libere elezioni a livello federale, ritenendo evidentemente sufficienti quelle repubblicane, come volevano le élites locali. E se fu tutto sommato agevole ai gruppi parlamentari di maggioranza relativa della Boemia-Moravia e della Slovacchia concordare pacificamente la divisione della Cecoslovacchia, mentre la stessa Unione Sovietica è riuscita a dissolversi contenendo le manifestazioni di violenza in situazioni sostanzialmente periferiche, non bisogna mai dimenticare che in Jugoslavia i contendenti non erano solo 2, ma almeno 7; inoltre, nessuno di loro possedeva la bomba atomica (come fattore di deterrenza: cosa, questa, che in effetti funzionò fra Russia e Ucraina) e, soprattutto, Cecoslovacchia e spazio ex sovietico, frantumatisi cronologicamente dopo la Jugoslavia, potevano ben guardarsi nello specchio di fronte al conflitto esploso in quel Paese, sapendo che l’estremizzazione della mobilitazione nazionale avrebbe condotto inevitabilmente a quel risultato. In tutto questo, però, la democrazia liberale c’entra poco o punto. Essa è stata, anzi, un inadeguato e impotente spettatore. Perché? Ecco l’interrogativo che serpeggia in tutti i saggi raccolti in questo volume e la risposta gradatamente emerge dalle analisi sia dall’ampia letteratura sul nazionalismo menzionata nelle pagine che seguono, sia dagli studi dedicati allo spazio culturale jugoslavo svolti nel corso degli anni da Sekulic,così come da altri autori.Tale risposta andrebbe individuatanella tramontatafunzione positiva del modello di Stato-Nazione, liberale o meno che sia. Pur tra mille contraddizioni,e con la tragedia della shoah sulle proprie spalle, in quanto manifestazione inerente ad una visione etnico-razzista, lo Stato-Nazione ha reso possibile, nell’arco di un paio di secoli, l’inclusione delle popolazioni di un determinato territorio nella selezione attiva delle élite, ne ha favorito l’istruzione di base e il benessere sociale ed economico. Spezzando il legame fra la divinità e il principe, come forma di legittimazione del potere, esso ha innescato un processo, complesso e difficile, ma che – specialmente dopo la seconda guerra mondiale – ha reso evidenti i suoi frutti,una volta avviata la liquefazione dei preesistenti modelli di dipendenza e delle forme di comunicazione fondate sulla famiglia “tradizionale”, su rigidi ceti sociali, su relazioni gerarchiche di genere … Se nonché, tali effetti non si sono solo verificati nelle democrazie liberali, ma anche in quelle socialiste, dove la modernizzazione ha comunque seguito il suo percorso, pur con tratti talvolta propri e originali, come ci racconta Sekulic. Sicché, al momento della disgregazione delle società socialiste lo Stato-Nazione liberale non ha saputo proporre una visione democratica multinazionale semplicemente perché questa era in contrasto con i suoi tratti strutturali, mentre le élite nazionaliste dei paesi socialisti hanno visto nell’etnia e nella omogeneità dello Stato-Nazione tanto il modo più rapido per mobilitare consensi e liberarsi del socialismo, quanto la modalità ritenuta più sicura per mantenersi al potere e assicurare (illudendosi) forme più solide di sviluppo economico e sociale attraverso politiche esclusiviste, sapendo altresì di poter contare su una cultura dello Stato condivisa – nella sostanza – dalle élite politiche occidentali. A conferma di tale convergenza basti qui ricordare i numerosi tentativi di mediazione euro-americani fra le varie rivendicazioni territoriali a sfondo etno-nazionale dei vari leader jugoslavi verificatisi già ai tempi della conferenza di Londra, e successivamente perseguiti dalla diplomazia internazionale negli anni successivi. In questo senso, l’accordo di Dayton e la Costituzione della Bosnia-Erzegovina (con 2 entità, 10 cantoni, un distretto ecc. ecc.) possono essere considerati il “capolavoro” di tale paradossale compromissione del liberalismo con lo stato etno-nazionale, in cui prospettive civiche ed etniche si sono intrinsecamente confuse, dando una patina di legittimità ai signori della guerra, pur nella condanna internazionale del ricorso alla violenza,espressa in particolare conil richiamo alla giustizia e l’istituzione dello ICTY. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Per rimediare, e pur non senza resistenze, fra il 2000 e il 2003 le democrazie liberali dell’Occidente hanno finito con il convenire che l’unica soluzione realisticamente stabilizzante andasse individuata nell’integrazione europea, ossia in un modello istituzionale incompiuto, ma che tuttaviatrascende lo Stato-Nazione. Salvo poi – a causa dei falliti referendum sul trattato costituzionale europeo del 2005, della crisi economica iniziata nel 2007 e dei timori d’interazione generati dalla globalizzazione, nonché dalla mobilità delle popolazioni (incluso Schengen) – tornare in parte sui propri passi, almeno per quanto concerne l’approfondimento dell’integrazione: tenaci resistenze da parte degli Stati membri hanno teso di recente a riaffermare il ruolo dominante dello Stato-Nazione all’interno della stessa UE, in realtà producendo inefficienze nella governance e incertezze politico-economiche sul futuro del Continente, con inevitabili riverberi nel Sud-Est Europeo, ancora alla ricerca di un consolidamento post-bellico, mentre neonazionalismi, xenofobia e razzismi diffondono vecchie/nuove forme di rifiuto dell’altro un po’ ovunque in Europa. Un nodo davvero dirimente – su cui manca ancora una riflessione compiuta – starebbe, quindi, nel fatto che dopo l’89 non è solo venuta meno in Europa l’opzione socialista, ma si è anche prodotto un mutamento capitale nella composizione sociale degli Stati esistenti,tale da mettere in liquidazione l’omogeneità nazionale. Governare l’eterogeneità è diventato,dunque, un imperativo politico prioritario per la democrazia, in termini tanto strutturali, economici e istituzionali, quanto culturali, linguistici, educativi ed empatici. Di conseguenza, si sono aperte nuove frontiere per lo sviluppo democratico, lungo però percorsi separati dallo Stato-Nazione, dopo due secoli di vicinanza e interazione. In questo quadro si comprende perché la mancata trasformazione democratica delle federazioni socialiste abbia rappresentato un aspetto cruciale nel complesso passaggio fra modernità e post-modernità,che le scienze sociali dovrebbero studiare approfonditamente e che i media e le élite politiche non dovrebbero snobbare o sottovalutare, tanto più in quando a tale esito si è giunti al termine di un tragitto segnato tanto da una lunga crisi economica (che le istituzioni esistenti non furono in grado di affrontare efficacemente), quanto dall’affermarsi di una diffusa, e irrazionale, paura della diversità. Intanto, a pochi anni di distanza da quei drammatici eventi – grazie al massiccio allargamento ad Est della UE e all’incedere della globalizzazione –, diversità, sviluppo e democrazia sono diventati tre aspetti fondamentali del processo di integrazione europeo. In altre parole, le sedimentate identità nazionali si trovano a dover fare i conti con la diffusione di meticciati e ibridismi;con nuove relazioni di genere;nuovi nomadismi;una visione plurale e differenziata della famiglia; un superamento della omogeneità religiosa in società politiche vieppiù caratterizzate dal moltiplicarsi di convinzioni e prescrizioni religiose, nonché di rivendicazioni laiche e di rispetto dei non credenti;con una cultura – infine – della convivenza in cui tutti sono, in una forma o nell’altra, minoranza. Resta da vedere se, e in quale misura, tali sedimentate identità nazionali sapranno adeguarsi al mutamento dei tempi. D’altra parte, elementi fondanti delle differenze (dal pluralismo religioso al meticciato, dal nomadismo linguistico-culturale ai cambiamenti delle relazioni di genere) erano già presenti o in corso di sviluppo nelle società plurinazionali socialiste, che pertanto non erano strutturalmente compatibili con l’omogeneità nazionale propagandata dalle democrazie occidentali. Di conseguenza, studiarne le caratteristiche,insieme ai limiti e alle ragioni della loro crisi,uscendo dalle ristrette interpretazioni di stampo ideologico (come invece è accaduto, sia pure comprensibilmente, negli anni seguiti alla caduta del muro di Berlino), costituisce un’occasione unica per riflettere non solo su un’esperienza sociale e di governo, ma anche sulla fallita interazione fra liberalismo democratico e transizione post-socialista in contesti plurinazionali; un’occasione, questa, che può fornire altresì utili indicazioni, anche pratiche, su come indirizzare gli sviluppi sociali democratici in contesti sempre più meticci e neo-nomadici, in cui la solidificazione di sangue e territorio (tipica dello Stato-Nazione) sta ormai svanendo di fronte alla fluidità dei poteri delle potenze globali e alla necessità di istituzioni adeguate, come sempre più si sta avvertendo all’interno dell’Unione Europea, non senza contrasti. Il libro di TatjanaSekulic costituisce indubbiamente uno stimolo a ragionare,in questi termini, sulla fine della guerra fredda, nonché su un conflitto – quale quello jugoslavo – che non fu affatto espressione di medioevo, quanto piuttosto anticipazione di dinamiche post-moderne. Leggendoi saggi contenuti in questo volume viene non solo da riflettere sulle vicendenarrate, ma anche da allargare il pensiero alle interazioni che operano attualmente, e influenzano la prospettiva dell’integrazione europea: in Jugoslavia negli anni Ottanta e Novanta, così come nella UE della crisi economico-finanziaria all’inizio del terzo millennio,sono in gioco aspirazioni e frustrazioni di popolazioni culturalmente sincretiche, ma a cui sono stati trasmessi per almeno due secoli (tramite i sistemi educativi nazionali) convinzioni e valori culturali omogeneizzanti, tanto distorcenti del divenire storico, quanto coerenti con la “filosofia della storia” nazionalista e quindi sostanzialmente esclusivisti. Invece, l’inclusività (sociale, culturale, politico-istituzionale, economica) della UE va potenzialmente ben oltre tali limiti e contribuisce ad accelerare il processo di liquefazione del moderno Stato-Nazione.Non è detto, però, che i poteri costituiti, così come quella parte delle popolazioni che teme di essere schiacciata dalla globalizzazione, non decidano di resistere a tali tendenze, generando vecchie/nuove forme di conflitto, i cui tratti potrebbero ricordare proprio quelli che hanno condotto la Jugoslavia alla dissoluzione. Vi è, dunque, materia di riflessione perché l’effetto prodotto in determinate circostanze storiche non si riproduca in altre: e, forse, proprio un sistema democratico capace di andare oltre l’omogeneità nazionale per governare le differenze di una società meticcia (e quindi molto più pregnante del mero multiculturalismo) potrebbe fare la differenza. In positivo.
2014
Od razarenog ka otvorenom drustvu
9
16
Predgovor / Bianchini S.. - STAMPA. - (2014), pp. 9-16.
Bianchini S.
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