Clima di regolarizzazione post conciliare e duraturi riscontri artistici a Bologna Marinella Pigozzi Indetto da Paolo III Farnese nel 1545 per definire il rinnovamento della Chiesa Cattolica dopo la Riforma protestante, il Concilio da Trento si trasferì temporaneamente a Bologna nel 1547. Nelle sessioni bolognesi si discusse il problema di come la messa, in quanto memoria e rapraesentatio passionis potesse essere una testimonianza di sacrificio salvifico. Il tema, assieme a quello della nascita della Vergine e della sua Immacolata Concezione, accanto a quello dell’universalità del peccato originale, era punto fondamentale del dissenso protestante. Il dogma dell’eucarestia diventava il segno e la via del rinnovamento e della pratica della fede cattolica. Attivo durante il Concilio, Gabriele Paleotti sarà nominato il 30 gennaio 1566 vescovo di Bologna da papa Pio V Ghislieri. Trasferitosi il 24 febbraio in città con l’intenzione di una residenza continua, nella sua diocesi, luogo di vivace fioritura di arti e scienze, si assumerà il compito di rinnovare i costumi e l’organizzazione della vita religiosa e di regolarizzare le immagini dentro e fuori le chiese. Intende mettere in atto con il coinvolgimento di laici ed ecclesiastici quel rinnovamento che in maniera spontanea si era già avviato e quanto il Concilio aveva deciso nelle ultime sedute, in particolare nella XXV: affidare ai vescovi il compito di controllo nei luoghi di culto delle immagini, prima via per la diffusione del rinnovato pensiero religioso aderente ai testi sacri. Paleotti nel 1581 darà diffusione editoriale al suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, ricco di chiarezza dottrinale ed energia propositiva. Vi «dichiara il vero modo che cristianamente si doveria osservare nel porle nelle chiese, nelle case et in ogni altro luogo». Rivolgendosi al popolo della città e della diocesi, sollecita il dialogo sistematico fra figure e testi sacri per evitare ogni abuso. Suggerisce agli artisti un’etica di comportamento, individua in loro il tramite fra la verità dei testi religiosi e i credenti, fra le esigenze estetiche e gli intenti catechetici. Ne consegue uno straordinario fervore architettonico e figurativo. Le pale d’altare diventano lo spazio in cui costruire un percorso d’impegno devozionale ed estetico. Nell’aprile 1583 si svolge un carteggio tra l’arcivescovo di Bologna, Carlo Sigonio e Silvio Antoniano, segretario del Collegio Cardinalizio Romano, per il problema della genesi del tema dell’Assunzione della Vergine. Il soggetto non aveva le sue basi nelle sacre scritture, ma in scritti apocrifi del IV e V secolo, nella patristica, nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine e nello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais. Gli interrogativi riguardavano la presenza degli angeli per sostenere la Vergine in anima e corpo, la presenza nel registro inferiore degli apostoli che però secondo i testi erano giunti al sepolcro dopo tre giorni, quanti dovevano essere perché Giacomo Maggiore era già morto e con quale atteggiamento, dove e come disporre il sepolcro. La Glorificazione e Assunzione della Vergine, nella collezione della Provincia che nell’occasione si mostra e già nella chiesa esterna dei Bastardini nel 1690, presenta solo i santi Pietro e Procolo, il primo osserva in atteggiamento di commossa partecipazione la salita della Vergine velata, il secondo ci guarda invitandoci a credere al miracolo (fig. 1, catalogo p. 49). Giulio Valeriani, il pittore, ha evitato in parte i rischi che il tema iconografico poteva presentare, anche se incongrui restano Pietro e Procolo. Il duplice ruolo di Procolo, protettore di Bologna e titolare della chiesa benedettina assieme a Pietro, ha prevalso sulla verità dell’avvenimento. Nello sviluppo del secondo Cinquecento religione e sangue si trovarono spesso mescolati. Nella pittura di Bologna gli esiti di teatrale violenza sui corpi, le mani mozze, gli occhi enucleati, gli intestini esplosi, furono meno frequenti che altrove e certo contribuì a ciò la fondamentale diversità d’opinione fra Paleotti e il Sant’Uffizio in materia di repressione della devianza religiosa. Si vuole rinnovare il pathos coinvolgente delle Sacre Rappresentazioni. Il Martirio di sant’Orsola e delle sue ancelle si segnala per la violenza dei gesti degli uccisori e per la notturna malinconia del cielo tempestoso, ma non vediamo una goccia di sangue (fig. 2, catalogo p. 49). Prevale l’invito alla pietas, il sorvegliato decoro, la pateticità asserita con languore. Campana vuole coinvolgere affettivamente, persuadere e commuovere l’osservatore. Possiamo costatarlo anche nella semplicità dello spazio quotidiano, la bottega di falegname, del Morte di san Giuseppe, sempre di Giacinto Campana e realizzato come il Martirio per la cappella Rinieri in Santa Maria delle Laudi, secondo quanto ci scrive Malvasia. Lo scrittore li ricorda già «assorbiti dall’imprimitura» (fig. 3, catalogo p. 50). Riscontriamo una intensa spiritualità anche nella precedente tavola con il Compianto sul Cristo morto attribuita al centese Giovanni Battista Cremonini, già all’Ospedale dei santi Pietro e Procolo, detto degli Innocenti, o degli Esposti, o dei Bastardini (fig. 4, catalogo p. 50). Come nella Salita al Calvario, firmata e datata 1598, oggi in Pinacoteca Nazionale, ma proveniente dal monastero delle monache di Sant’Agnese, il pittore con l’abituale «velocità di fare, pratica e franchezza» concentra sulle figure il pathos intenso della vicenda. Colpisce il naturalismo del corpo di Cristo, prossimo alle ricerche anatomiche che i Carracci conducevano nella loro Accademia. Altrove, il linguaggio pittorico aderisce a modi arcaici, a prototipi di primo Cinquecento uniti ad influenze carraccesche. Suggestioni da Ludovico Carracci e dalla sua opera per i Bargellini vediamo nella Madonna col Bambino e i santi Giovannino, Giuseppe e Francesco, pala d’altare della cappella Rinieri in Santa Maria delle Laudi ed ascritta da Malvasia al giovane Giacomo Cavedoni (fig. 5, catalogo p. 50). Gli angeli tirano la tenda, dettaglio prezioso che evidenzia l’idea di quadro nel quadro, frequente nella prassi pittorica di Controriforma. Lo ritroviamo soprattutto in Scipione Pulzone e in contemporanei artisti romani, per cui possiamo supporre che Cavedoni abbia dipinto l’opera dopo il suo soggiorno romano. Il libro aperto in primo piano richiama al rigore ascetico della preghiera e della meditazione. San Francesco è concentrato nella visione della Vergine ineffabile. Lo stanco e canuto San Giuseppe preoccupato si appoggia al suo bastone. San Giovanni ci guarda per coinvolgerci. L’effetto arcaistico dell’impaginato caratterizza l’opera attribuita a Biagio Pupini con I santi Rocco, Francesco, Sebastiano, Antonio Abate, un giovane donatore e due angeli, che reggono la corona sopra la colomba dello Spirito Santo. Più interessante il brano naturalistico dello sfondo con colori caldi e vibranti di luce (fig. 6, catalogo p. 51). La componente ferrarese-dossesca si registra nella Madonna col Bambino e i santi Procolo, Eustachio, Maria Maddalena e papa Sisto IV proveniente da Santa Maria degli Angeli. La tavola è ricordata da Antonio Masini in Bologna perlustrata. Masini, che l’attribuisce a Battista Dossi, la vide sull’altar maggiore della chiesa prossima all’Ospedale dei Bastardini. Benché non siano riconoscibili stringenti legami stilistici con le opere di Battista, al ferrarese Dossi la tavola è ricondotta ancora dal Baruffaldi. La conoscenza del classicismo raffaellesco, a cui rimanda la meditata ricerca formale e l’equilibrio compositivo delle figure dei santi, va delineandosi in senso naturalistico. Il paesaggio rimanda a prove parmigianinesche e a quella cultura che vive nei territori estensi, avendo in Girolamo da Carpi uno dei suoi più vivaci interpreti e serbatoio privilegiato di sperimentazioni. Agli anni trenta potremmo far risalire anche la tavola della Provincia e i disegni ritrovati nel verso della stessa. La sacra conversazione testimonia l’unione delle compagnie di san Sisto, di santa Maria Maddalena, di sant’Eustachio e san Procolo, unione finalizzata all’assistenza dell’infanzia abbandonata (fig. 7, catalogo p. 51). Oggetto di particolare devozione popolare è stato il culto della Madonna con i Misteri del Rosario. Pio V papa lo istituì quale ringraziamento per la vittoria della cristianità contro i turchi nella battaglia di Lepanto (1571) e la festa si rinnova tuttora ogni anno il 7 ottobre. Nella tela con la Madonna del Rosario, San Domenico e il committente, proveniente dall’Ospedale degli Esposti, Prospero Fontana ritrae la Vergine su una nuvola con in braccio l’irrequieto Bambino e intanto offre il “contapreghiere” al vigoroso San Domenico, tutto proteso a riceverlo e a passarlo al canuto nobiluomo. In primo piano il barbuto e stempiato committente osserva l’azione della Vergine e a sua volta riceve l’anello di grani dal santo (fig. 8, catalogo p. 52). Stilisticamente, per i richiami alla cultura tosco-romana e per la presenza dell’arcaico “contapreghiere”, chicchi grandi e piccoli riuniti da un cordone con nappine, la tela e le scene circostanti potrebbero collocarsi all’inizio degli anni settanta. Già in quest’opera, all’inizio del vescovado in città di Gabriele Paleotti, Fontana si rivela strumento della Biblia Pauperum del cardinale, delle sue urgenze didattiche e devozionali. Alcuni dei quindici misteri circostanti l’azione della Vergine, la Disputa coi dottori nel tempio, l’Incoronazione della Vergine per esempio, in minor misura manifestano l’indagine analitica di matrice fiamminga propria di Prospero. Potrebbero ascriversi alla collaborazione di Lavinia, la figlia del pittore. Dal centro del coro della chiesa di San Procolo proviene il San Benedetto di Bartolomeo Cesi, che proprio in questa chiesa volle essere sepolto, convinto del magistero benedettino. È esplicito l’abbandono delle forme frante e torte della maniera per una elementare solida, scultorea triangolazione della figura, espressione di pacata devozione (fig. 9, catalogo p. 52). Cesi «stette più [dei manierosi] ancora all’ubbidienza del naturale, in ciò seguendo i concorrenti e coetanei Carracci», ci informa il Mlavasia. Nel suo stile combinatorio, sa far dialogare la tradizione accademica tosco-romana con la ricerca di verità dei Carracci. Trasferito nell’Amministrazione dell’Ospedale degli Esposti nel 1801, l’olio su tela databile al 1590 fu in seguito portato nella chiesetta dell’Ospedale e là lo vide l’Arfelli nel 1933. Patetismo devozionale riscontriamo ancora alla fine del XVIII secolo nella tela di Mauro Gandolfi con I santi Antonio, Giacomo, Francesco, Girolamo, Giovanni e due angeli (fig. 10, catalogo p. 53). Proviene dall’altar maggiore di Santa Maria delle Laudi, l’ospedale di San Francesco preferito albergo anche dai forestieri e dai pellegrini che dalla Lombardia si dirigevano a Loreto e alla Santa Casa. La tela fungeva da frontale alla Madonna col Bambino che gioca con un cardellino (fig. 11, catalogo p. 53). La tavola è attribuita a Lippo di Dalmasio e proviene da via del Pratello, come Malvasia ci precisa. Secondo la tradizione il cardellino, simbolo della passione di Cristo, cercò di liberarlo dai chiodi che lo costringevano alla croce. L’immagine trecentesca è stata inserita nel 1795 in un contesto di altra epoca, di carattere moderno rispondente al gusto settecentesco, nascondendo il coro angelico e la forma cuspidata della tavola. La stessa strategia era stata seguita con il frontale precedente, di Maestro veronese del Cinquecento, ma con attribuzione confermata dal Masini al Malvasia a Biagio Pupini. L’inserimento ci conferma uno dei riflessi più duraturi della Controriforma Tridentina: il privilegiato riferimento alle testimonianze antiche, alle antichità cristiane, dalle catacombe alle chiese dei primi martiri, per enfatizzare la carica pietistica. Si è trattato di un significativo arricchimento del senso storico, non solo del rifiuto della interpretazione distorta delle immagini sacre che procedendo da Giulio II era continuata sino a Clemente VII. Bologna aveva visto un appassionato ricercatore delle prime immagini cristiane: Francesco Cavazzoni, artista e pellegrino. Mauro Gandolfi (1764-1834), autore del frontale, nell’occasione elabora con verosimiglianza un soggetto proposto dal padre Gaetano. Di Gaetano è la luminosa Resurrezione di Cristo, tela siglata e datata sul verso 1792, proveniente come la precedente da Santa Maria delle Laudi (fig. 12, catalogo p. 53). Ancora a queste tarde date del secolo XVIII è sempre la Resurrezione di Annibale Carracci il modello. Donata dal senatore Angelo Maria Angelelli, la tela di Annibale era esposta dal 1689 nel Corpus Domini. Portata a Parigi nel 1796 dall’esercito napoleonico, tuttora è al Louvre, a Bologna in Pinacoteca Nazionale è una copia proveniente dalla collezione Zambeccari. I soldati si agitano terrorizzati, facendosi scudo con i loro mantelli. Già Guido Reni per la sua Resurrezione, commissionatagli dai Guidotti per la basilica di San Domenico, aveva fatto riferimento al modello di Annibale, confermando il duraturo influsso della sua arte. La città di Bologna nella sua più ampia veste culturale, scientifica e artistica, offre numerose testimonianze e occasioni di riflessione. Significativo il dialogo con le realtà venete, lombarde, toscane, oltre che con Roma ove agiva dal 1572 un papa bolognese, Gregorio XIII Boncompagni. Gli artisti bolognesi si confermano capaci di percorsi autonomi e svolti con originalità rispetto alle forme assunte nella Roma pontificia dalla tramontante maniera. In questo ricco clima culturale si formano i pittori Carracci e i loro committenti. Aperta nel 1582 nella loro stanza in via dei Falegnami non una semplice bottega, bensì l’Accademia dei Desiderosi, Ludovico e i due più giovani cugini da poco ritornati da Venezia, Agostino rivelatosi già abile incisore e Annibale, l’anno seguente saranno coinvolti nel ciclo di affreschi con la storia di Giasone nel palazzo del conte Fava. Annibale daterà la sua prima opera pubblica, la Crocifissione e santi per l’altare dei Macchiavelli in San Nicolò. Vi mostra il pastoso colore di Correggio e il chiaroscuro di Tiziano, suoi primi eletti maestri assieme al cugino Ludovico. Annibale era interessato e studiava con i principi della natura anche le tecniche e le tradizioni dell’arte, la trattazione del colore e del chiaroscuro. Lo affascinava la varietà della bellezza visibile. Non ignoravano i Carracci le riflessioni sull’arte scaturite dopo il Concilio di Trento. A Paleotti Agostino aveva dedicato nel 1579 l’incisione con l’Adorazione dei Magi, cui era seguita due anni dopo la pianta di Bologna con l’elenco di tutte le chiese. Saranno coinvolti Ludovico e Annibale nella decorazione della cappella della famiglia dell’arcivescovo in San Pietro, consacrata nel giugno 1593. Testimonieranno tutti una nuova attenzione per il dato naturale, per gli atti feriali, sorpresi dalla bellezza della natura, dalla morbidezza dei corpi, dal variare delle espressioni nei visi. Ricchi di cultura, cercavano con l’esperienza la verità del tema rappresentato, liberi, ma criticatissimi, dagli stereotipi dei “manierosi” che pur continuavano a coesistere, alcuni con forti interessi per le forme naturali, altri con propensioni spiccatamente devozionali, assertori di quel catechismo messo in figura che il cardinale Paleotti richiedeva per rinnovare la Chiesa e sottolineare i valori spirituali ed etici del cristianesimo. Ludovico agirà anche all’interno della Compagnia dei pittori, di cui era membro dal 1578, nel tentativo di raggiungere una posizione corporativa autonoma, volendo distinguere la pittura dalle arti meccaniche. Dopo la morte dei cugini, Agostino a Parma nel 1602, Annibale a Roma nel 1609, deciderà l’unione dell’Accademia degli Incamminati, la familiare impresa, con la Compagnia. Veniva così a concludersi un’esperienza formativa, ma anche veniva meno in città la testimonianza di un’arte diversa da quella sostenuta dall’Accademia del Disegno di Firenze, diversa dal suo intellettualismo, dalla vertigine tosco-romana centrica sostenuta dalla corte medicea e diffusa da Vasari con le sue Vite. L’aderenza al vero, il grottesco, la divertita bizzarria, l’attenzione alle espressioni sono le categorie che avvicinano i Carracci all’arte medievale, a Vitale e agli altri interpreti della grande tradizione bolognese del Trecento.

Clima di regolarizzazione postconciliare e duraturi riscontri artistici a Bologna

PIGOZZI, MARINELLA
2013

Abstract

Clima di regolarizzazione post conciliare e duraturi riscontri artistici a Bologna Marinella Pigozzi Indetto da Paolo III Farnese nel 1545 per definire il rinnovamento della Chiesa Cattolica dopo la Riforma protestante, il Concilio da Trento si trasferì temporaneamente a Bologna nel 1547. Nelle sessioni bolognesi si discusse il problema di come la messa, in quanto memoria e rapraesentatio passionis potesse essere una testimonianza di sacrificio salvifico. Il tema, assieme a quello della nascita della Vergine e della sua Immacolata Concezione, accanto a quello dell’universalità del peccato originale, era punto fondamentale del dissenso protestante. Il dogma dell’eucarestia diventava il segno e la via del rinnovamento e della pratica della fede cattolica. Attivo durante il Concilio, Gabriele Paleotti sarà nominato il 30 gennaio 1566 vescovo di Bologna da papa Pio V Ghislieri. Trasferitosi il 24 febbraio in città con l’intenzione di una residenza continua, nella sua diocesi, luogo di vivace fioritura di arti e scienze, si assumerà il compito di rinnovare i costumi e l’organizzazione della vita religiosa e di regolarizzare le immagini dentro e fuori le chiese. Intende mettere in atto con il coinvolgimento di laici ed ecclesiastici quel rinnovamento che in maniera spontanea si era già avviato e quanto il Concilio aveva deciso nelle ultime sedute, in particolare nella XXV: affidare ai vescovi il compito di controllo nei luoghi di culto delle immagini, prima via per la diffusione del rinnovato pensiero religioso aderente ai testi sacri. Paleotti nel 1581 darà diffusione editoriale al suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, ricco di chiarezza dottrinale ed energia propositiva. Vi «dichiara il vero modo che cristianamente si doveria osservare nel porle nelle chiese, nelle case et in ogni altro luogo». Rivolgendosi al popolo della città e della diocesi, sollecita il dialogo sistematico fra figure e testi sacri per evitare ogni abuso. Suggerisce agli artisti un’etica di comportamento, individua in loro il tramite fra la verità dei testi religiosi e i credenti, fra le esigenze estetiche e gli intenti catechetici. Ne consegue uno straordinario fervore architettonico e figurativo. Le pale d’altare diventano lo spazio in cui costruire un percorso d’impegno devozionale ed estetico. Nell’aprile 1583 si svolge un carteggio tra l’arcivescovo di Bologna, Carlo Sigonio e Silvio Antoniano, segretario del Collegio Cardinalizio Romano, per il problema della genesi del tema dell’Assunzione della Vergine. Il soggetto non aveva le sue basi nelle sacre scritture, ma in scritti apocrifi del IV e V secolo, nella patristica, nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine e nello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais. Gli interrogativi riguardavano la presenza degli angeli per sostenere la Vergine in anima e corpo, la presenza nel registro inferiore degli apostoli che però secondo i testi erano giunti al sepolcro dopo tre giorni, quanti dovevano essere perché Giacomo Maggiore era già morto e con quale atteggiamento, dove e come disporre il sepolcro. La Glorificazione e Assunzione della Vergine, nella collezione della Provincia che nell’occasione si mostra e già nella chiesa esterna dei Bastardini nel 1690, presenta solo i santi Pietro e Procolo, il primo osserva in atteggiamento di commossa partecipazione la salita della Vergine velata, il secondo ci guarda invitandoci a credere al miracolo (fig. 1, catalogo p. 49). Giulio Valeriani, il pittore, ha evitato in parte i rischi che il tema iconografico poteva presentare, anche se incongrui restano Pietro e Procolo. Il duplice ruolo di Procolo, protettore di Bologna e titolare della chiesa benedettina assieme a Pietro, ha prevalso sulla verità dell’avvenimento. Nello sviluppo del secondo Cinquecento religione e sangue si trovarono spesso mescolati. Nella pittura di Bologna gli esiti di teatrale violenza sui corpi, le mani mozze, gli occhi enucleati, gli intestini esplosi, furono meno frequenti che altrove e certo contribuì a ciò la fondamentale diversità d’opinione fra Paleotti e il Sant’Uffizio in materia di repressione della devianza religiosa. Si vuole rinnovare il pathos coinvolgente delle Sacre Rappresentazioni. Il Martirio di sant’Orsola e delle sue ancelle si segnala per la violenza dei gesti degli uccisori e per la notturna malinconia del cielo tempestoso, ma non vediamo una goccia di sangue (fig. 2, catalogo p. 49). Prevale l’invito alla pietas, il sorvegliato decoro, la pateticità asserita con languore. Campana vuole coinvolgere affettivamente, persuadere e commuovere l’osservatore. Possiamo costatarlo anche nella semplicità dello spazio quotidiano, la bottega di falegname, del Morte di san Giuseppe, sempre di Giacinto Campana e realizzato come il Martirio per la cappella Rinieri in Santa Maria delle Laudi, secondo quanto ci scrive Malvasia. Lo scrittore li ricorda già «assorbiti dall’imprimitura» (fig. 3, catalogo p. 50). Riscontriamo una intensa spiritualità anche nella precedente tavola con il Compianto sul Cristo morto attribuita al centese Giovanni Battista Cremonini, già all’Ospedale dei santi Pietro e Procolo, detto degli Innocenti, o degli Esposti, o dei Bastardini (fig. 4, catalogo p. 50). Come nella Salita al Calvario, firmata e datata 1598, oggi in Pinacoteca Nazionale, ma proveniente dal monastero delle monache di Sant’Agnese, il pittore con l’abituale «velocità di fare, pratica e franchezza» concentra sulle figure il pathos intenso della vicenda. Colpisce il naturalismo del corpo di Cristo, prossimo alle ricerche anatomiche che i Carracci conducevano nella loro Accademia. Altrove, il linguaggio pittorico aderisce a modi arcaici, a prototipi di primo Cinquecento uniti ad influenze carraccesche. Suggestioni da Ludovico Carracci e dalla sua opera per i Bargellini vediamo nella Madonna col Bambino e i santi Giovannino, Giuseppe e Francesco, pala d’altare della cappella Rinieri in Santa Maria delle Laudi ed ascritta da Malvasia al giovane Giacomo Cavedoni (fig. 5, catalogo p. 50). Gli angeli tirano la tenda, dettaglio prezioso che evidenzia l’idea di quadro nel quadro, frequente nella prassi pittorica di Controriforma. Lo ritroviamo soprattutto in Scipione Pulzone e in contemporanei artisti romani, per cui possiamo supporre che Cavedoni abbia dipinto l’opera dopo il suo soggiorno romano. Il libro aperto in primo piano richiama al rigore ascetico della preghiera e della meditazione. San Francesco è concentrato nella visione della Vergine ineffabile. Lo stanco e canuto San Giuseppe preoccupato si appoggia al suo bastone. San Giovanni ci guarda per coinvolgerci. L’effetto arcaistico dell’impaginato caratterizza l’opera attribuita a Biagio Pupini con I santi Rocco, Francesco, Sebastiano, Antonio Abate, un giovane donatore e due angeli, che reggono la corona sopra la colomba dello Spirito Santo. Più interessante il brano naturalistico dello sfondo con colori caldi e vibranti di luce (fig. 6, catalogo p. 51). La componente ferrarese-dossesca si registra nella Madonna col Bambino e i santi Procolo, Eustachio, Maria Maddalena e papa Sisto IV proveniente da Santa Maria degli Angeli. La tavola è ricordata da Antonio Masini in Bologna perlustrata. Masini, che l’attribuisce a Battista Dossi, la vide sull’altar maggiore della chiesa prossima all’Ospedale dei Bastardini. Benché non siano riconoscibili stringenti legami stilistici con le opere di Battista, al ferrarese Dossi la tavola è ricondotta ancora dal Baruffaldi. La conoscenza del classicismo raffaellesco, a cui rimanda la meditata ricerca formale e l’equilibrio compositivo delle figure dei santi, va delineandosi in senso naturalistico. Il paesaggio rimanda a prove parmigianinesche e a quella cultura che vive nei territori estensi, avendo in Girolamo da Carpi uno dei suoi più vivaci interpreti e serbatoio privilegiato di sperimentazioni. Agli anni trenta potremmo far risalire anche la tavola della Provincia e i disegni ritrovati nel verso della stessa. La sacra conversazione testimonia l’unione delle compagnie di san Sisto, di santa Maria Maddalena, di sant’Eustachio e san Procolo, unione finalizzata all’assistenza dell’infanzia abbandonata (fig. 7, catalogo p. 51). Oggetto di particolare devozione popolare è stato il culto della Madonna con i Misteri del Rosario. Pio V papa lo istituì quale ringraziamento per la vittoria della cristianità contro i turchi nella battaglia di Lepanto (1571) e la festa si rinnova tuttora ogni anno il 7 ottobre. Nella tela con la Madonna del Rosario, San Domenico e il committente, proveniente dall’Ospedale degli Esposti, Prospero Fontana ritrae la Vergine su una nuvola con in braccio l’irrequieto Bambino e intanto offre il “contapreghiere” al vigoroso San Domenico, tutto proteso a riceverlo e a passarlo al canuto nobiluomo. In primo piano il barbuto e stempiato committente osserva l’azione della Vergine e a sua volta riceve l’anello di grani dal santo (fig. 8, catalogo p. 52). Stilisticamente, per i richiami alla cultura tosco-romana e per la presenza dell’arcaico “contapreghiere”, chicchi grandi e piccoli riuniti da un cordone con nappine, la tela e le scene circostanti potrebbero collocarsi all’inizio degli anni settanta. Già in quest’opera, all’inizio del vescovado in città di Gabriele Paleotti, Fontana si rivela strumento della Biblia Pauperum del cardinale, delle sue urgenze didattiche e devozionali. Alcuni dei quindici misteri circostanti l’azione della Vergine, la Disputa coi dottori nel tempio, l’Incoronazione della Vergine per esempio, in minor misura manifestano l’indagine analitica di matrice fiamminga propria di Prospero. Potrebbero ascriversi alla collaborazione di Lavinia, la figlia del pittore. Dal centro del coro della chiesa di San Procolo proviene il San Benedetto di Bartolomeo Cesi, che proprio in questa chiesa volle essere sepolto, convinto del magistero benedettino. È esplicito l’abbandono delle forme frante e torte della maniera per una elementare solida, scultorea triangolazione della figura, espressione di pacata devozione (fig. 9, catalogo p. 52). Cesi «stette più [dei manierosi] ancora all’ubbidienza del naturale, in ciò seguendo i concorrenti e coetanei Carracci», ci informa il Mlavasia. Nel suo stile combinatorio, sa far dialogare la tradizione accademica tosco-romana con la ricerca di verità dei Carracci. Trasferito nell’Amministrazione dell’Ospedale degli Esposti nel 1801, l’olio su tela databile al 1590 fu in seguito portato nella chiesetta dell’Ospedale e là lo vide l’Arfelli nel 1933. Patetismo devozionale riscontriamo ancora alla fine del XVIII secolo nella tela di Mauro Gandolfi con I santi Antonio, Giacomo, Francesco, Girolamo, Giovanni e due angeli (fig. 10, catalogo p. 53). Proviene dall’altar maggiore di Santa Maria delle Laudi, l’ospedale di San Francesco preferito albergo anche dai forestieri e dai pellegrini che dalla Lombardia si dirigevano a Loreto e alla Santa Casa. La tela fungeva da frontale alla Madonna col Bambino che gioca con un cardellino (fig. 11, catalogo p. 53). La tavola è attribuita a Lippo di Dalmasio e proviene da via del Pratello, come Malvasia ci precisa. Secondo la tradizione il cardellino, simbolo della passione di Cristo, cercò di liberarlo dai chiodi che lo costringevano alla croce. L’immagine trecentesca è stata inserita nel 1795 in un contesto di altra epoca, di carattere moderno rispondente al gusto settecentesco, nascondendo il coro angelico e la forma cuspidata della tavola. La stessa strategia era stata seguita con il frontale precedente, di Maestro veronese del Cinquecento, ma con attribuzione confermata dal Masini al Malvasia a Biagio Pupini. L’inserimento ci conferma uno dei riflessi più duraturi della Controriforma Tridentina: il privilegiato riferimento alle testimonianze antiche, alle antichità cristiane, dalle catacombe alle chiese dei primi martiri, per enfatizzare la carica pietistica. Si è trattato di un significativo arricchimento del senso storico, non solo del rifiuto della interpretazione distorta delle immagini sacre che procedendo da Giulio II era continuata sino a Clemente VII. Bologna aveva visto un appassionato ricercatore delle prime immagini cristiane: Francesco Cavazzoni, artista e pellegrino. Mauro Gandolfi (1764-1834), autore del frontale, nell’occasione elabora con verosimiglianza un soggetto proposto dal padre Gaetano. Di Gaetano è la luminosa Resurrezione di Cristo, tela siglata e datata sul verso 1792, proveniente come la precedente da Santa Maria delle Laudi (fig. 12, catalogo p. 53). Ancora a queste tarde date del secolo XVIII è sempre la Resurrezione di Annibale Carracci il modello. Donata dal senatore Angelo Maria Angelelli, la tela di Annibale era esposta dal 1689 nel Corpus Domini. Portata a Parigi nel 1796 dall’esercito napoleonico, tuttora è al Louvre, a Bologna in Pinacoteca Nazionale è una copia proveniente dalla collezione Zambeccari. I soldati si agitano terrorizzati, facendosi scudo con i loro mantelli. Già Guido Reni per la sua Resurrezione, commissionatagli dai Guidotti per la basilica di San Domenico, aveva fatto riferimento al modello di Annibale, confermando il duraturo influsso della sua arte. La città di Bologna nella sua più ampia veste culturale, scientifica e artistica, offre numerose testimonianze e occasioni di riflessione. Significativo il dialogo con le realtà venete, lombarde, toscane, oltre che con Roma ove agiva dal 1572 un papa bolognese, Gregorio XIII Boncompagni. Gli artisti bolognesi si confermano capaci di percorsi autonomi e svolti con originalità rispetto alle forme assunte nella Roma pontificia dalla tramontante maniera. In questo ricco clima culturale si formano i pittori Carracci e i loro committenti. Aperta nel 1582 nella loro stanza in via dei Falegnami non una semplice bottega, bensì l’Accademia dei Desiderosi, Ludovico e i due più giovani cugini da poco ritornati da Venezia, Agostino rivelatosi già abile incisore e Annibale, l’anno seguente saranno coinvolti nel ciclo di affreschi con la storia di Giasone nel palazzo del conte Fava. Annibale daterà la sua prima opera pubblica, la Crocifissione e santi per l’altare dei Macchiavelli in San Nicolò. Vi mostra il pastoso colore di Correggio e il chiaroscuro di Tiziano, suoi primi eletti maestri assieme al cugino Ludovico. Annibale era interessato e studiava con i principi della natura anche le tecniche e le tradizioni dell’arte, la trattazione del colore e del chiaroscuro. Lo affascinava la varietà della bellezza visibile. Non ignoravano i Carracci le riflessioni sull’arte scaturite dopo il Concilio di Trento. A Paleotti Agostino aveva dedicato nel 1579 l’incisione con l’Adorazione dei Magi, cui era seguita due anni dopo la pianta di Bologna con l’elenco di tutte le chiese. Saranno coinvolti Ludovico e Annibale nella decorazione della cappella della famiglia dell’arcivescovo in San Pietro, consacrata nel giugno 1593. Testimonieranno tutti una nuova attenzione per il dato naturale, per gli atti feriali, sorpresi dalla bellezza della natura, dalla morbidezza dei corpi, dal variare delle espressioni nei visi. Ricchi di cultura, cercavano con l’esperienza la verità del tema rappresentato, liberi, ma criticatissimi, dagli stereotipi dei “manierosi” che pur continuavano a coesistere, alcuni con forti interessi per le forme naturali, altri con propensioni spiccatamente devozionali, assertori di quel catechismo messo in figura che il cardinale Paleotti richiedeva per rinnovare la Chiesa e sottolineare i valori spirituali ed etici del cristianesimo. Ludovico agirà anche all’interno della Compagnia dei pittori, di cui era membro dal 1578, nel tentativo di raggiungere una posizione corporativa autonoma, volendo distinguere la pittura dalle arti meccaniche. Dopo la morte dei cugini, Agostino a Parma nel 1602, Annibale a Roma nel 1609, deciderà l’unione dell’Accademia degli Incamminati, la familiare impresa, con la Compagnia. Veniva così a concludersi un’esperienza formativa, ma anche veniva meno in città la testimonianza di un’arte diversa da quella sostenuta dall’Accademia del Disegno di Firenze, diversa dal suo intellettualismo, dalla vertigine tosco-romana centrica sostenuta dalla corte medicea e diffusa da Vasari con le sue Vite. L’aderenza al vero, il grottesco, la divertita bizzarria, l’attenzione alle espressioni sono le categorie che avvicinano i Carracci all’arte medievale, a Vitale e agli altri interpreti della grande tradizione bolognese del Trecento.
2013
L'eredità dei Bastardini dall'Assistenza all'Arte
45
55
Pigozzi M.
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