Come qualsiasi organismo vivente l’uomo è obbligato a nutrirsi, ma, differentemente dalle altre specie, è dotato di un filtro culturale che, rielaborando e mediando un’esigenza naturale come quella del cibo, affranca l’atto del mangiare dall’essere una semplice risposta a meccanismi fisiologici, rendendolo un atto logico, distinguente: «le abitudini e le preferenze alimentari non riguardano solo il rifornimento dell’organismo, la necessità di lenire i morsi della fame o il piacere offerto dalle sensazioni gustative. Il cibo e l’alimentazione sono fondamentali per la soggettività, il senso del sé e la personificazione o il modo decisamente soggettivo con cui occupiamo il nostro corpo e sopravviviamo.Definire il cibo come questione meramente biologica e quantitativa, come prodotto di un’industria, del cibo, appunto, nonché come somma dei suoi nutrienti, andando a scindere i componenti “buoni” da quelli “cattivi”, porterebbe a compimento il disincanto del cibo: priverebbe cioè il cibo di quel suo incanto magico e simbolico che lo ha reso, da sempre, protagonista e soggetto all’interno delle dinamiche profonde dell’essere e divenire società e civiltà. Il cibo comprende in sé aspetti che spaziano dal naturale al culturale, dall’individuale al sociale: pertanto riteniamo che le differenti modalità con cui l’uomo ha saputo rielaborare lo stimolo al nutrimento, possano costituire un punto privilegiato da cui osservare le attività umane. Le abitudini alimentari, lungi dal rappresentare la semplice soddisfazione di necessità biologiche, costituiscono una modalità con cui gli uomini organizzano lo spazio sociale, segnando confini tra classi sociali, regioni, nazioni, culture, generi sessuali e fasi della vita. Mangiare costituisce sì un sistema di comunicazione, ma nel contempo una modalità grazie alla quale l’individuo, accettando o rifiutando determinati valori connessi a quel particolare alimento, si rapporta ed impara a conoscere il mondo, elaborando una propria “Weltanschauung”: il cibo, infatti, per essere giudicato edibile, non può limitarsi ad essere buono da mangiare, ma deve contemporaneamente essere buono da pensare, secondo la celebre formula di Lévi Strauss (1979). L’uomo, cioè, istituisce con il cibo un rapporto eminentemente simbolico: egli non è un semplice mangiatore biologico, in quanto il suo istinto viene mediato attraverso la dimensione culturale. Ed è in questo senso che il cibo diviene uno strumento di comunicazione, un codice condiviso, non diverso dal linguaggio.
P. Degli Esposti (2013). il cibo come linguaggio fondamentale della postmodernità. milano : FRANCO ANGELI.
il cibo come linguaggio fondamentale della postmodernità
DEGLI ESPOSTI, PIERGIORGIO
2013
Abstract
Come qualsiasi organismo vivente l’uomo è obbligato a nutrirsi, ma, differentemente dalle altre specie, è dotato di un filtro culturale che, rielaborando e mediando un’esigenza naturale come quella del cibo, affranca l’atto del mangiare dall’essere una semplice risposta a meccanismi fisiologici, rendendolo un atto logico, distinguente: «le abitudini e le preferenze alimentari non riguardano solo il rifornimento dell’organismo, la necessità di lenire i morsi della fame o il piacere offerto dalle sensazioni gustative. Il cibo e l’alimentazione sono fondamentali per la soggettività, il senso del sé e la personificazione o il modo decisamente soggettivo con cui occupiamo il nostro corpo e sopravviviamo.Definire il cibo come questione meramente biologica e quantitativa, come prodotto di un’industria, del cibo, appunto, nonché come somma dei suoi nutrienti, andando a scindere i componenti “buoni” da quelli “cattivi”, porterebbe a compimento il disincanto del cibo: priverebbe cioè il cibo di quel suo incanto magico e simbolico che lo ha reso, da sempre, protagonista e soggetto all’interno delle dinamiche profonde dell’essere e divenire società e civiltà. Il cibo comprende in sé aspetti che spaziano dal naturale al culturale, dall’individuale al sociale: pertanto riteniamo che le differenti modalità con cui l’uomo ha saputo rielaborare lo stimolo al nutrimento, possano costituire un punto privilegiato da cui osservare le attività umane. Le abitudini alimentari, lungi dal rappresentare la semplice soddisfazione di necessità biologiche, costituiscono una modalità con cui gli uomini organizzano lo spazio sociale, segnando confini tra classi sociali, regioni, nazioni, culture, generi sessuali e fasi della vita. Mangiare costituisce sì un sistema di comunicazione, ma nel contempo una modalità grazie alla quale l’individuo, accettando o rifiutando determinati valori connessi a quel particolare alimento, si rapporta ed impara a conoscere il mondo, elaborando una propria “Weltanschauung”: il cibo, infatti, per essere giudicato edibile, non può limitarsi ad essere buono da mangiare, ma deve contemporaneamente essere buono da pensare, secondo la celebre formula di Lévi Strauss (1979). L’uomo, cioè, istituisce con il cibo un rapporto eminentemente simbolico: egli non è un semplice mangiatore biologico, in quanto il suo istinto viene mediato attraverso la dimensione culturale. Ed è in questo senso che il cibo diviene uno strumento di comunicazione, un codice condiviso, non diverso dal linguaggio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.