Saggio critico in forma di testimonianza in prima persona teso a render conto delle scelte interpretative sottese all’allestimento di “Moscheta” da me stesso diretto per il Teatro de gli Incamminati, protagonista Franco Branciaroli, debuttato a Latisana il 31 ottobre del 2001. Dopo una parte introduttiva dedicata a chiarire i motivi per cui, agli inizi del nuovo millennio, Branciaroli aveva deciso di portare in scena la celebre commedia di Ruzante – motivi a mio giudizio essenzialmente ravvisabili in un suo desiderio di riconfrontarsi con l’insegnamento del suo grande Maestro Giovanni Testori (essendo il drammaturgo di Novate notoriamente affascinato dal teatro di Ruzante, specie nella restituzione teatrale datane da Franco Parenti al principio degli anni Settanta del secolo scorso) –, lo scritto passa ad un’analisi delle mie modalità d’approccio alla partitura drammaturgica di Beolco, essenzialmente debitrici sia della lettura zorziana di “Moscheta” quale capolavoro del teatro della crudeltà rinascimentale, sia della nota tesi sanguinetiana secondo la quale al fondo della poetica teatrale di Artaud (come si è appena detto evocata a proposito di Ruzante da Zorzi) sarebbe ravvisabile il modello del teatro anatomico: non per nulla proprio uno spaccato di teatro anatomico fu scelto a fare da sfondo scenografico alla “Moscheta” di Franco e mia (scenografia Giacomo Andrico). Avendo adottato Sanguineti a guida del lungo viaggio verso la commedia ruzantiana, in linea con le istanze ‘critiche’ che innervano la scrittura di Beolco, Brecht divenne fatalmente uno dei numi tutelari dell’intera 'operazione "Moscheta"'. D’altra parte è ancora dalla frequentazione di Sanguineti e del suo teatro, specie dalla lettura del suo copione “Storie naturali”, che prese corpo l’idea di costruire tutto il progetto luci dello spettacolo sul buio in cui sprofonda il quinto atto della commedia. Nel prosieguo del saggio vengo poi a spiegare come, alla luce di questa complessa genealogia di influenze, tutta la messa in scena di “Moscheta” fosse costruita su di una sorta di asse ermeneutico Testori-Sanguineti, strutturato sull’opposizione affatto ruzantiana corpo/mistero metafisico – opposizione ben oggettivata nella partitura musicale concepita per accompagnare lo spettacolo svariante tra i valzerini di Nino Rota o Casadei e la “Passione secondo Matteo” di Bach. Da questa complessa costruzione ‘critica’ nasce la “Moscheta” di Branciaroli e mia: uno spettacolo tutto teso a negare ogni concessione al comico e sedotto dal tema della fisicità. Lungi dal risolversi in una fuga dal linguaggio, nella “Moscheta” branciaroliana l’ossessione somatica s’invera verbalmente: il violento corpo a corpo degli attori con le parole di Ruzante – assunte radicalmente all’interno del nostro spettacolo nel dettato originale del drammaturgo, senza alcun addomesticamento o ammodernamento – è infatti il vero luogo deputato ad accogliere l’epifania dello «snaturale» ruzantiano. Alla lettera, dunque, «verbum caro factum est». Riletta alla luce del teatro di Testori, “Moscheta” rivela così come al fondo della sua violenta fisicità tutta affidata al linguaggio, non diversamente dagli altri esiti maggiori del teatro di Beolco, stia una sorta di intima ‘conversazione con la morte’. Punto di forza dell’interpretazione data da Franco del personaggio di Ruzante è proprio la sua straordinaria capacità di usare il pavano di Beolco per dar voce e corpo alla morte.

C. Longhi (2012). «Verbum caro factum est»: una "Moscheta" per Franco Branciaroli. PADOVA : CLEUP.

«Verbum caro factum est»: una "Moscheta" per Franco Branciaroli

LONGHI, CLAUDIO
2012

Abstract

Saggio critico in forma di testimonianza in prima persona teso a render conto delle scelte interpretative sottese all’allestimento di “Moscheta” da me stesso diretto per il Teatro de gli Incamminati, protagonista Franco Branciaroli, debuttato a Latisana il 31 ottobre del 2001. Dopo una parte introduttiva dedicata a chiarire i motivi per cui, agli inizi del nuovo millennio, Branciaroli aveva deciso di portare in scena la celebre commedia di Ruzante – motivi a mio giudizio essenzialmente ravvisabili in un suo desiderio di riconfrontarsi con l’insegnamento del suo grande Maestro Giovanni Testori (essendo il drammaturgo di Novate notoriamente affascinato dal teatro di Ruzante, specie nella restituzione teatrale datane da Franco Parenti al principio degli anni Settanta del secolo scorso) –, lo scritto passa ad un’analisi delle mie modalità d’approccio alla partitura drammaturgica di Beolco, essenzialmente debitrici sia della lettura zorziana di “Moscheta” quale capolavoro del teatro della crudeltà rinascimentale, sia della nota tesi sanguinetiana secondo la quale al fondo della poetica teatrale di Artaud (come si è appena detto evocata a proposito di Ruzante da Zorzi) sarebbe ravvisabile il modello del teatro anatomico: non per nulla proprio uno spaccato di teatro anatomico fu scelto a fare da sfondo scenografico alla “Moscheta” di Franco e mia (scenografia Giacomo Andrico). Avendo adottato Sanguineti a guida del lungo viaggio verso la commedia ruzantiana, in linea con le istanze ‘critiche’ che innervano la scrittura di Beolco, Brecht divenne fatalmente uno dei numi tutelari dell’intera 'operazione "Moscheta"'. D’altra parte è ancora dalla frequentazione di Sanguineti e del suo teatro, specie dalla lettura del suo copione “Storie naturali”, che prese corpo l’idea di costruire tutto il progetto luci dello spettacolo sul buio in cui sprofonda il quinto atto della commedia. Nel prosieguo del saggio vengo poi a spiegare come, alla luce di questa complessa genealogia di influenze, tutta la messa in scena di “Moscheta” fosse costruita su di una sorta di asse ermeneutico Testori-Sanguineti, strutturato sull’opposizione affatto ruzantiana corpo/mistero metafisico – opposizione ben oggettivata nella partitura musicale concepita per accompagnare lo spettacolo svariante tra i valzerini di Nino Rota o Casadei e la “Passione secondo Matteo” di Bach. Da questa complessa costruzione ‘critica’ nasce la “Moscheta” di Branciaroli e mia: uno spettacolo tutto teso a negare ogni concessione al comico e sedotto dal tema della fisicità. Lungi dal risolversi in una fuga dal linguaggio, nella “Moscheta” branciaroliana l’ossessione somatica s’invera verbalmente: il violento corpo a corpo degli attori con le parole di Ruzante – assunte radicalmente all’interno del nostro spettacolo nel dettato originale del drammaturgo, senza alcun addomesticamento o ammodernamento – è infatti il vero luogo deputato ad accogliere l’epifania dello «snaturale» ruzantiano. Alla lettera, dunque, «verbum caro factum est». Riletta alla luce del teatro di Testori, “Moscheta” rivela così come al fondo della sua violenta fisicità tutta affidata al linguaggio, non diversamente dagli altri esiti maggiori del teatro di Beolco, stia una sorta di intima ‘conversazione con la morte’. Punto di forza dell’interpretazione data da Franco del personaggio di Ruzante è proprio la sua straordinaria capacità di usare il pavano di Beolco per dar voce e corpo alla morte.
2012
Molte cose stanno bene nella penna che ne la scena starebben male. Teatro e lingua in Ruzante
327
343
C. Longhi (2012). «Verbum caro factum est»: una "Moscheta" per Franco Branciaroli. PADOVA : CLEUP.
C. Longhi
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/125049
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