Nel corso del Settecento furono molti i casi di infanticidio che vennero perseguiti dal tribunale del Torrone di Bologna e discussi in Congregazione criminale. Due di questi processi, quello di Lucia Cremonini, difesa nel 1710 da Alessandro Dolfi e di Sabbatina Bruni, difesa da Vincenzo Andrea Guinigi, si conclusero con la condanna a morte. La giustizia agì con altrettanto rigore contro Sabbatina Bruni, condannata e impiccata nel 1723. In altri casi, però, il confronto fra argomenti della difesa e sentenza, emanata sulla base delle prove materiali e testimoniali raccolte, porta a concludere che la pena di morte per questo ed altri reati "atrocissimi" veniva applicata ogni volta che la responsabilità del delitto fosse stata ragionevolmente dimostrata e che alcune circostanze aggravanti (aver sgozzato il figlio senza battezzarlo per Lucia, aver barattato la sua vita per pochi denari per Sabbatina) rendessero agli occhi dei giudici non accettabili come argomenti a discarico l’età, la difesa dell’onore, la paura, argomenti che, nel Settecento lasciarono spazio per pene più miti tanto che a sentenze capitali per le infanticide si ricorse il meno possibile. Anche in un caso esemplare di sospetto uxoricidio la difesa fece prevalere la necessità di verificare l'esistenza di prove a carico oltre ogni ragionevole dubbio.
C. Casanova (2011). Crimini di sangue: la parola alla difesa. PISA : Edizioni della Normale.
Crimini di sangue: la parola alla difesa
CASANOVA, CESARINA
2011
Abstract
Nel corso del Settecento furono molti i casi di infanticidio che vennero perseguiti dal tribunale del Torrone di Bologna e discussi in Congregazione criminale. Due di questi processi, quello di Lucia Cremonini, difesa nel 1710 da Alessandro Dolfi e di Sabbatina Bruni, difesa da Vincenzo Andrea Guinigi, si conclusero con la condanna a morte. La giustizia agì con altrettanto rigore contro Sabbatina Bruni, condannata e impiccata nel 1723. In altri casi, però, il confronto fra argomenti della difesa e sentenza, emanata sulla base delle prove materiali e testimoniali raccolte, porta a concludere che la pena di morte per questo ed altri reati "atrocissimi" veniva applicata ogni volta che la responsabilità del delitto fosse stata ragionevolmente dimostrata e che alcune circostanze aggravanti (aver sgozzato il figlio senza battezzarlo per Lucia, aver barattato la sua vita per pochi denari per Sabbatina) rendessero agli occhi dei giudici non accettabili come argomenti a discarico l’età, la difesa dell’onore, la paura, argomenti che, nel Settecento lasciarono spazio per pene più miti tanto che a sentenze capitali per le infanticide si ricorse il meno possibile. Anche in un caso esemplare di sospetto uxoricidio la difesa fece prevalere la necessità di verificare l'esistenza di prove a carico oltre ogni ragionevole dubbio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.